Di questi tempi, non c’è attimo che non ci si metta a parlare della sorte dell’Europa, il nostro Vecchio Continente. Dalle parole dei politici e degli “uomini di cultura” arrivano filtrati dei messaggi che il pubblico non sa cogliere, ma che hanno radici spesse alle basi del nostro modo di vivere. Dietro chi parla non c’è nemmeno la cultura, molto spesso, di saper rintracciare la fonte originale del pensiero e dell’ideologia. Ma che cosa possiamo dire noi del marasma che ci viene sbattuto in faccia?
La pianta è già brutta da vedere ma è ciò che sta sotto il terreno a contare davvero. Nella storia si parla di muri perché si ha paura della mancanza di limiti. Ciò che pensiamo ci dia sicurezza è la cristallizzazione, il separarci da ciò che è inevitabile. E’ così che nasce l’ideologia europea, così famosa nella storia, del nazionalismo ottocentesco. Come tutte le storture, è un narcotico per gli analfabeti e per le bestie di qualsivoglia classe. Una bandiera può diventare un perfetto sostituto per il crocifisso e la passione per la politica una cisti che non si può estrarre. Se cambia lo Stato, cambiano gli uomini. E gli uomini non sono tanto cattivi in fondo. Così semplice no? Non sentite già nell’aria il fetore di Marx e del suo lontano amico Rousseau, o degli anarchici, i comunisti, i fascisti?
Eppure, se la memoria non ci inganna, non è dal basso che si costruisce un palazzo? E che questo palazzo – lo Stato in tutte le sue forme – sia utile o meno, non bisogna avere il materiale e il progetto? Dal tetto certo non si arriverà a niente. Il buon vecchio Fritz ha sempre le parole giusto sull’argomento: “Lo stato è il più freddo di tutti i mostri”.
Noi siamo figli delle storture dell’Ottocento e delle sue malattie. Napoleone ha creato in noi europei una paura dell’assenza di confini, senza che la limitata cultura degli europei di oggi riesca a spiegare il perché di questo correre nervoso, inutile della coscienza e dell’isteria che ne consegue. Nei testi precedenti e posteriori allo Zarathustra, si ha la comprensione di un flusso dell’Europa verso l’unità, un sentimento organico, represso e rigeneratosi nei secoli, fin dal cuore del Mediterraneo.
Si arriverà, dice lui, ad un buddhismo europeo, assenza totale di dolore o forza di volontà (senza la sicurezza data dal culto orientale), grazie al liberalismo, dalle politiche livellatrici, un invasamento da tarantolati che non tiene conto del sentire degli individui e dei popoli. L’Italia, aborto statale per eccellenza, peggio rattoppata di uno straccio ricucito, ne è l’esempio perfetto: nel suo insieme grottesco è quasi un capolavoro di dissonanze.
Noi europei sappiamo di essere uniti nel profondo. Tanti, troppi testi ce lo dicono. Ma ciò che ci vuole, come in tutte le cose, non è la politica, ma ciò che la precede: lettere, arti, pensieri, senso dell’economia e dei suoi rischi. Lo stato è un orpello a ciò che sta dietro, come la summa delle idee di Voltaire che avrebbe dovuto guidare il potere europeo a suo tempo. Ma ciò che è sopraggiunto è un’invidia crudele e sanguinaria di chi voleva primeggiare senza un blasone dietro cui nascondersi.
L’Europa con i suoi scrittori più grandi urla al rinnovamento. La struttura seguirà: ma la cellula è l’individuo. Ci vuole sfiducia verso la politica per vincere in questa vita. Non vince il diritto, quanto la coscienza vera di ciò che si è. Se si ha questa resilienza, non si ha bisogno né di attaccare né di dominare. Chi trova rifugio nella politica vuole sicurezza per sé offrendo un’ideologia, perfino in buona fede. Ma sono castelli di sabbia rispetto alle lezioni della Storia e i tesori dello spirito.
Antonio Canzoniere