Il caso del rifugiato cinese che teme di essere rimpatriato dal governo turco svela la complessità del problema dei campi di detenzione in Cina e del dramma delle minoranze che vi sono internate, in particolar modo quelle musulmane la cui stima s’aggira intorno al milione di prigionieri.
Aihemaiti Xianmixiding, 29 anni, è in possesso della residenza turca e del permesso di lavoro, ma il 30 maggio scorso è stato arrestato con l’accusa di essere parte di un gruppo terroristico, il Movimento Nazionale Uiguro. L’uomo ha dichiarato di non sapere nulla a proposito di tale organizzazione e ciò che più lo preoccupa sono le voci relative ai trasferimenti forzati di uiguri, in particolare il caso di una donna, Zinnetgul Tursun, che sarebbe stata deportata dapprima in Tajikistan e poi di lì in Cina, insieme ai suoi due figli.
Una vicenda in cui è difficile capirci qualcosa, perché il governo turco stesso sta cercando di comprendere cosa sia successo: ha riferito infatti che l’ambasciata del Tajikistan avrebbe insistito che si tratta di una loro cittadina, mentre altre fonti affermano il contrario. Il punto è che se la Turchia nega che rimanderebbe mai in Cina gli uiguri che hanno ricevuto asilo, d’altro canto il timore degli attivisti è che sia il Tajikistan ad agire sotto l’egida di Pechino, facendo pressioni per facilitare i trasferimenti sul proprio territorio.
Xianmixiding racconta di aver ricevuto serie minacce dalla polizia cinese attraverso il servizio di messaggistica WeChat fin dalla sua fuga nel 2016. Un racconto verosimile, se si considera che pressioni analoghe sono state registrate anche sui membri della minoranza rifugiati in Europa, dove spesso al tasso insufficiente di accoglienza dei richiedenti asilo si sommano la sottovalutazione della loro situazione nel Paese d’origine da parte dei governi e la scarsa consapevolezza dell’opinione pubblica.
Nel frattempo, i rapporti sulle condizioni dei campi di detenzione cinesi, che il governo chiama “centri di rieducazione”, sono sempre più allarmanti, e la preoccupazione presso le Nazioni Unite e gli attivisti sta salendo. In base ai resoconti degli ex-internati, le donne subirebbero devastanti pratiche di sterilizzazione con conseguenze anche sulla loro salute mentale. Secondo l’Indipendent uigure, kazake e altre musulmane hanno raccontato di essere state costrette a infilare il braccio in uno spiraglio nella porta della propria cella per subire una iniezione: “Presto abbiamo realizzato che dopo l’iniezione non avevamo più il ciclo mestruale”, ha spiegato una donna all’emittente France24.
Le dichiarazioni dei rifugiati sopravvissuti all’internamento concordano nel descrivere uno scenario disumano, in cui oltre 50 persone vengono stipate in celle di 10 metri per 20, dove subiscono torture, pestaggi ed elettroshock, costrette a mangiare maiale e a cantare canzoni politiche. Il drammatico appello pubblicato dal New York Times, diffuso da tre giovani le cui famiglie sono state deportate negli ultimi anni, svela una realtà di sparizioni e sequestri frutto di un sistema di controllo che sconfina dagli stessi centri di detenzione e si sviluppa attraverso le sofisticate tecnologie di monitoraggio messe in campo dal governo sulla minoranza uigura, che vanno dal riconoscimento facciale alla raccolta del DNA.
Azioni che la Cina giustifica come strumenti di lotta al fondamentalismo religioso, ma che colpiscono indiscriminatamente cittadini di ogni estrazione culturale e sociale, che peraltro è impossibile non collegare con le forme di persecuzione adottate nei riguardi dei monaci tibetani, espulsi dai monasteri e a loro volta rinchiusi nei centri di detenzione in cui alle sevizie si sommano gli abusi sessuali sulle religiose. Un fenomeno esteso, se si pensa che il Parco forestale Wanshan, nell’Henan, era considerato luogo santo per i buddisti fino allo scorso anno, quando erano presenti 13 templi attivi: ora sono tutti chiusi.
Il segretario di Stato americano Mike Pompeo ha recentemente parlato senza mezzi termini della situazione cinese, definendo questa forma di deportazione di massa “la macchia del secolo” e accusando Pechino di essere responsabile di una delle peggiori crisi umanitarie dei nostri tempi. L’impegno di Pompeo, un cristiano evangelico che ha dato priorità alla promozione della libertà religiosa fin dalla sua nomina, si è scontrato però con le critiche all’amministrazione Trump, le cui politiche restrittive in materia d’immigrazione hanno portato a un drastico calo nell’ambito dell’accoglienza ai rifugiati.
L’impatto delle scelte della Casa Bianca sui richiedenti asilo e quindi sulle minoranze religiose perseguitate è stato sottolineato dalle Nazioni Unite e dall’International Rescue Committee. Secondo questa organizzazione, il taglio delle ammissioni negli USA rispetto ai numeri della presidenza Obama è pari rispettivamente al 97% dei cristiani iraniani, il 96% di quelli iracheni, il 97% degli yazidi provenienti dall’Iraq e dalla Siria, e il 77% dei rohingya in fuga dal Myanmar. Un quadro emblematico del modo in cui l’aumento delle persecuzioni religiose nei Paesi dell’Asia (dalla Cina all’India passando per il Pakistan), del Medio Oriente e dell’Africa si scontra con l’ascesa dei populismi in America ed Europa, e in particolar modo con le drammatiche conseguenze delle strette sulle politiche migratorie.
Camillo Maffia