Fino a ora, il 2019 ha visto la morte di almeno 683 migranti nelle acque del Mediterraneo. Secondo un report appena pubblicato, i decessi sono in calo, poiché si tratta del 47% delle 1449 vittime registrate nello stesso periodo dello scorso anno. La maggior parte di essi è avvenuta durante gli attraversamenti in direzione dell’Italia, rappresentando oltre la metà di tutti i decessi registrati quest’anno, nonostante la Spagna sia divenuta la principale destinazione dei nuovi arrivi. Nel parlare di numeri e di migranti, spesso, la polemica si infiamma sulle responsabilità dell’Italia e sui compiti dell’Europa. Chi dibatte perlopiù di “cosa fare” e “cosa dare” a chi arriva, chi porta avanti bracci di ferro e provocazioni politiche che oscurano quella che è una riflessione che non trova spazio su giornali e telegiornali: dove vengono seppelliti i migranti che trovano la morte nel Mediterraneo? Ecco la storia dei cimiteri dei migranti.
Moltissimi restano senza nome
Dal 2014 al 2016 la conta dei morti nelle acque che delimitano il confine meridionale del nostro continente ha toccato la cifra impressionante di 12 mila vittime. Molti di questi sono semplicemente spariti, perché salpando dalla Turchia, dalla Libia o dall’Egitto non sono mai arrivati. Di alcuni di loro a volte si trovano i resti, perché trasportati dalle stesse navi di soccorso che raggiungono i porti europei.
Una volta attraccati, le autorità avviano le procedure per la sepoltura. La prima di queste è l’identificazione, che però si rivela un’operazione ardua. In pochissimi trovano identificazione immediata. Alla maggior parte viene assegnato un tumulo di terra, con una lapide e un cartellino di riferimento, consegnato dalle autorità locali. La BBC ha stimato che nell’anno e mezzo intercorso tra il 2014 e giugno del 2016, 70 cimiteri turchi, grechi e italiani hanno dato sepoltura a 1250 migranti.
Le cerimonie di sepoltura
Le spese di trasporti e accertamenti sono a carico dello stato. S procede al trasporto delle salme in una camera mortuaria, solitamente di un ospedale vicino al porto di arrivo. Qui il cadavere è sottoposto a un esame da parte di un medico e un magistrato ne dichiara formalmente la morte. Si procede poi al trasferimento al cimitero per la sepoltura.
E’ veramente complicato stabilire la fede religiosa di una persona e non è raro che si assista a quello che spesso avviene in Sicilia. I comuni hanno organizzato in più occasioni delle funzioni multireligiose per l’ultimo saluto a coloro che non sono stati identificati. A Catania, ad esempio, nel maggio del 2014 sono stati sepolti 17 tra eritrei, siriani e nigeriani. Nei paesi di provenienza coesistono la fede islamica e quella cristiana e si è pensato che una cerimonia multireligiosa potesse essere un triste ma buon compromesso. I costi dei funerali, invece, vengono sostenuti da associazioni come le opere pie, un particolare tipo di ente cattolico senza scopo di lucro.
La conservazione del DNA non è così semplice né così utile
Lo stato ha poi il compito di conservare informazioni relative alla futura indicazione dei corpi, secondo i principi del diritto internazionale. Quando i dati anagrafici sono sconosciuti, possono essere d’aiuto gli effetti personali e i campioni di tessuto su cui vengono svolti dei testi del DNA. In questo ambito, però, sorge un altro problema: non esiste un archivio centrale in Italia in cui conservare questi resti. Una famiglia che si metta alla ricerca di un congiunto quindi incontrerà grandi difficoltà logistiche e burocratiche nell’individuare anche solo chi materialmente possieda i campioni del DNA e nel fare riferimento ai vari cimiteri dei migranti sparsi sul territorio.
I cimiteri dei migranti in Italia
In Italia non esiste un unico cimitero dei migranti, perché sono diversi i porti in cui navi e piccole imbarcazioni di fortuna attraccano. In Grecia, più precisamente a Lesbo, l’amministrazione locale ha deciso di sistemare le salme in un terreno apposito in un villaggio posto sull’isola. Si tratta però di un caso peculiare: Lesbo è infatti un’isola di transito dalla Turchia per la cosiddetta “rotta balcanica” verso il nostro continente. Su quest’isola, l’ottava del Mediterraneo per grandezza, la sezione del cimitero di San Pantaleone aveva raggiunto la massima capienza e le autorità locali hanno preso provvedimenti. In Italia un caso simile è quello di Lampedusa. Nel 2012, l’allora sindaca Giusi Nicolini aveva scritto una lettera (poi pubblicata dal blog di Beppe Grillo) in cui denunciava la difficoltà gestionale delle operazioni di sepoltura, visto che il cimitero locale non aveva più loculi disponibili. L‘amministrazione ha poi avviato dei lavori che hanno espanso il cimitero e la “zona dei senza nome”. Anche qui molti migranti rimangono infatti senza identità.
La tumulazione avviene quindi semplicemente con un’indicazione numerica (es. B/2014). Alcune lapidi sono corredate da informazioni generiche, relative al sesso e all’età presunta, all’etnia e alla data di ritrovamento. Anche in altre zone d’Italia (a Taranto, a Messina o a Foza d’Agrò), comunque, autorità, associazioni e parrocchie collaborano per dare a questi cadaveri una degna sepoltura nei cimiteri dei migranti, spesso parte di cimiteri già esistenti.
Uno dei cimiteri dei migranti della Libia
https://www.youtube.com/watch?v=eEAk10ru1A8
I cimiteri separati hanno senso?
Nel dicembre del 2018, invece, in Calabria sono iniziati i lavori per il “Cimitero dei migranti” intitolato ad Aylan Kurdi, il bimbo di soli 3 anni ritrovato morto su una spiaggia nel 2015. A volere la struttura sono stati innanzitutto il Movimento Diritti Civili, il comune di Tarsia (Cosenza) e la Regione Calabria. L’iniziativa, seppure lodata da molte parti, non ha trovato però l’approvazione di tutti. Tra questi, ad esempio, l’ex primo cittadino di Riace, Mimmo Lucano, che ha definito questa suddivisione delle salme “una cosa lugubre”, come a indicare l’ennesima creazione di una barriera tra “noi” e “loro”, anche dopo la morte. A livello gestionale, la costruzione di un cimitero separato rappresenta sicuramente una soluzione a lungo termine per un problema che, seppure in calo, rischia di essere ancora fondamentale nella vita dei comuni direttamente interessati, oltre a tutte le implicazioni etiche e morali che riguardano il nostro paese. Che, ancora oggi, a chi cerca un futuro migliore troppo spesso dà al massimo una tomba con un numero.
Elisa Ghidini