“Ciceruacchio, carettiere a vino,
che t’arza co una mano un caratello
è un marcantonio tosto: un travertino,
sverto de lingua e pronto de cortello;
che pija foco peggio d’un cerino
si vede un lupo trucidà un agnello.
Greve a parlà ma nobbile de còre,
rispetta solo er codice d’onore.”
Claudio Sterpi
Nella notte tra il 10 e l’11 agosto del 1849, tradito e catturato da un contingente austriaco, moriva fucilato Angelo Brunetti, per tutti Ciceruacchio.
Moriva un indiscusso protagonista di quel laboratorio di democrazia che fu la Repubblica romana del 1849.
“Dio e popolo” il motto impresso sui muri e sulle bandiere tricolore dei rivoluzionari che sfilavano per le strade di una Roma decadente e misera.
E chi meglio di lui poteva incarnarne lo spirito; lui che con indosso una giacchetta con su ricamata la scritta “Viva Pio IX” incitava il popolo, la gente comune, alla chiamata alle armi?
IL CAPOPOPOLO
Figlio di un maniscalco del popolare rione di Campo Marzio, di professione carrettiere presso il porto di Ripetta dove scaricava botti di vino dai Castelli romani e in seguito oste presso l’osteria di Porta del Popolo, Ciceruacchio ebbe sempre dalla sua un carattere gioviale, carismatico e da buontempone che lo rese popolare e benvoluto da tutti.
Compensava la mancanza di istruzione con innate doti di oratore che ne facevano un demagogo vivace e brillante, dall’aspetto rassicurante, tracagnotto e pieno.
Proprio queste sue caratteristiche fisiche, secondo la tesi più attestata, sarebbero all’origine del soprannome Ciceruacchio.
Scrive a tal proposito lo scrittore e patriota Raffaello Giovagnoli:
Il bambino era bianco, roseo, biondo, dagli occhi azzurri, grosso e rotondo più dell’ordinario. Per quella abbondante rotondità di forme infantili, le comari del vicinato, togliendolo delle braccia della sora Cecilia e vezzeggiandolo e palleggiandolo, cominciarono, incoro a dire: Oh che bel Ciccio!… O che bel Ciccio!… e altre ad aggiungere: È grasso come un rocchio, oh che bel rocchio! Oh che bel ruacchio! E di lì derivò, fin dalla infanzia, il soprannome di Ciceruacchio
Dove “ruacchio”, in dialetto romanesco, indica un bel taglio di carne di manzo.
TRAIT D’UNION
Cattolicissimo, fu tra i maggiori seguaci e sostenitori delle politiche liberali di papa Pio IX fino al voltagabbana del pontefice del 27 aprile del ’48 e la sua conseguente fuga verso Gaeta, sotto la protezione del re di Napoli Ferdinando II.
Già capo della “Vendita di Trastevere” sin dal 1831, associazione vicina alla Carboneria, Ciceruacchio simpatizzava coi concetti in voga nel secolo, tra sentimenti nazionali e smania di libertà individuali.
Fu perciò processo naturale la sua adesione alle teorie mazziniane e il suo ruolo di guida del popolo nella neonata Repubblica romana del 1849 fu vitale al punto da avvicinarlo nell’immaginario a personalità quali Garibaldi. In realtà la sua azione politica fu poca cosa, pur essendo parte dei Circoli romani che gestivano le istituzioni in assenza del pontefice.
Di lui si ricorda un fallito tentativo di instaurare un’unione tosco-romana, quando l’Assemblea costituente della Repubblica lo spedì a Livorno in qualità di legato.
È anzi proprio nel suo ruolo di congiunzione tra le schiere di nobili illuminati e borghesi pensatori che affollavano i caffè di Roma e le masse del popolo più misero, quello che si destreggiava tra bevute in osteria e risse al coltello, che la figura di Ciceruacchio trova la più degna collocazione.
Senza personalità come la sua, in grado di tradurre in azione la teoria, capace tanto di sedare quanto di accendere gli animi delle schiere analfabete e indisciplinate che lottarono in difesa della Repubblica assediata, non avremmo effettiva testimonianza di quale ruolo fondamentale giocarono le masse popolari nei moti rivoluzionari che costituirono il Risorgimento.
Masse, soprattutto quelle urbane, molto più politicizzate e consapevoli di quanto non si credesse in certi ambienti storiografici.
LA FUGA
Assediata e ridotta allo stremo dalle forze francesi guidate dal comandante Oudinot, la Repubblica romana cessò di esistere (sebbene mai formalmente sciolta dai triumviri e dall’assemblea costituente che, mentre l’armata francese sfilava per le vie della città, promulgava la Costituzione più audace e progressista che si fosse mai vista in Europa) il 4 luglio del 1849.
Tra i punti della resa all’esercito francese inviato da quel Bonaparte che con un colpo di Stato diventerà tre anni dopo imperatore sotto il nome di Napoleone III, c’era la concessione dell’uscita dalla città delle schiere di volontari guidati da Giuseppe Garibaldi.
Nel suo storico discorso in piazza San Pietro del 2 luglio, il condottiero più illustre d’Europa, forse del mondo, promise che “dovunque saremo, colà sarà Roma”, annunciando battaglia nei territori circostanti alla capitale nella speranza di nuove sommosse.
A seguirlo, alle 18.00 dello stesso giorno, tra i quattromila uscenti, anche Ciceruacchio accompagnato dai due figli Luigi e Lorenzo, l’ultimo di soli tredici anni.
Separati dal comandante in terra romagnola, dopo essere sfuggiti alla cattura di contingenti austriaci, Ciceruacchio e il suo seguito, pronti ad essere tradotti a Venezia che ancora resisteva, furono traditi da un oste in località Ca’ Tiepolo (Rovigo) e consegnati ai soldati austriaci che li fucilarono senza processo.
IL CICERUACCHISMO
Correvano i bei tempi arcadicamente felici dei primi anni di Pio IX. Due erano allora i sovrani di Roma, il Papa e Ciceruacchio; anzi il secondo poteva forse qualche cosa più del primo, o almeno certo il primo non poteva nulla senza il secondo. Chi faceva la pioggia e il bel tempo, chi faceva il buono o cattivo umore era Ciceruacchio; tutta Roma ciceruacchieggiava fino al delirio.
Nemmeno quarant’anni dopo le vicende della Repubblica, lo scrittore e bibiliotecario Costantino Maes, nella sua opera Curiosità Romane, ricorda cosa fu per Roma la figura di Angelo Brunetti coniando il termine ciceruacchismo. Un padre per il popolo, un animo buono. Maes sottolinea inoltre come uno smacco la mancanza del busto del capopopolo tra quelli esposti sulla terrazza panoramica del Pincio.
Un onore che gli verrà conferito solo molto dopo, quando una statua, la cui realizzazione si deve al siciliano Ettore Ximenes, precedentemente collocata sul lungotevere Arnaldo da Brescia dal 1907, nascosta dai platani e insozzata dal continuo passaggio delle macchine, verrà posta nel parco del Gianicolo, nei pressi del cancello che dà su Porta San Pancrazio, uno dei luoghi storici della resistenza della Repubblica romana, in occasione della celebrazione dei 150 anni dell’Unità d’Italia nel 2011.
E mentre le mondine nelle risaie del delta del Po intonavano una filastrocca che fa
Fiol d’un can d’un Pelli
che t’ha tradì chi sette
in mezzo a ghiera un prete
e el fiol del dotor
e che ricorda il tradimento subito dai garibaldini, la figura di Ciceruacchio, dalla sommità del colle dove riposa, potrà finalmente compiacersi di quell’avvenuta Unità per cui donò tutto se stesso.
Alessandro Leproux