C’è stato un tempo in cui batteri, muffe, spore venivano tenuti ben alla larga dalle cucine. Eppure, in incognito sotto forma di yogurt, sottaceti, persino quei cetriolini dall’aria apparentemente innocua e scialba, e filoni di pane, birre e altri cibi di cui andiamo ghiotti, sono sempre stati lì, a vivere e prosperare nelle nostre dispense, ancor prima della venuta dei frigoriferi.
Parliamo dei cibi fermentati. E quella di produrli, è una tecnica talmente antica, da potersi definire una vera e propria arte della fermentazione.
Si tratta di un’arte lenta, grazie alla quale ci è stato concesso di conservare alimenti altrimenti deperibili – in particolare verdure, latte e carni fresche – lungo periodi altrimenti impensabili. Ma non si tratta soltanto di pura funzionalità: questi processi infatti, possono sprigionare i sapori più intensi dei cibi, acuirne gli aromi, espanderne i profumi. Pensiamo ad esempio al tanto decantato umami: lo definiscono il quinto gusto fondamentale, quel “saporito” che non può essere definito “salato”, eppure è in grado di conquistare persino i palati più difficili. Portavoce dell’umami sono il miso e la salsa di soia, ma anche nella cucina nostrana possiamo rintracciarlo ad esempio nella colatura di alici, o nel Parmigiano. Che cos’hanno in comune tutti questi cibi?
Si tratta di cibi fermentati – “masticati”, pre-digeriti dai batteri – e anche se l’idea di “fermentati” richiama alla tua mente frutta e verdura abbandonate in fondo al frigo, dovresti sapere che sono il nuovo vanto degli chef del Noma di Copenaghen, che su questo metodo hanno pure scritto un libro-guida che ne racchiude i segreti.
A prima vista quindi, l’immagine non è delle più invitanti: eppure se guardi sotto alla patina biancastra formata dai lieviti e dai lattobacilli, e vai oltre l’odore pungente che ti prende la gola all’apertura del barattolo, troverai una vera e propria arte appunto, che dona agli alimenti infinite potenzialità.
I cibi fermentati costruiscono reti sociali
Se sei ancora interessato ad accogliere in cucina muffe e batteri – sì, ma buoni – potresti iniziare ad esempio dalle verdure lattofermentate: niente di più semplice, con soli due ingredienti, un ortaggio a scelta e un pizzico di sale. Nessun batterio estraneo nella ricetta, quindi un buon inizio, per chi è ancora riluttante all’idea di una laboriosa colonia sul tavolo della sala da pranzo.
Ma una delle meraviglie della fermentazione è che intesse relazioni e si basa sullo scambio: vi ricordate di quella catena che girava qualche anno fa, con cui amici e parenti ti affibbiavano il loro “lievitino”, invitandoti a far lo stesso con altre cinque o sette persone? Al contrario, adesso gli chef e gli appassionati di cibi fermentati vanno alla ricerca di chi detiene gli “starter”, l’innesco necessario per far partire l’intero processo. Va così di moda la kombucha, e ancor di più i pani lievitati con pasta madre. Tutti della medesima famiglia: cibi fermentati, che però in questo caso hanno bisogno di specifici lieviti, batteri, spore e funghi, che gli adepti si scambiano di mano in mano. Ecco che così, gli SCOBY (acronimo di Symbiotic Culture Of Bacteria and Yeast), essenziali per la kombucha, diventano beni di contrabbando fra le cucine degli chef più rinomati.
Un processo indietro nel tempo, fino alle proprie origini
Per qualcuno cimentarsi nell’arte della fermentazione, rappresenta l’occasione per risalire alle proprie origini e alle attività dei nostri antenati. In quanto strumento utilissimo per conservare cibi, essa esiste appunto da prima dei frigoriferi, dei conservanti artificiali e degli additivi alimentari. È il caso ad esempio di chi tenta di produrre lo yogurt, o il kefir in casa (per il quale bisogna procurarsi i granuli, che se ben nutriti cresceranno a velocità esponenziale). È così che i pastori nomadi conservavano il latte sulle lunghe distanze.
E ancora più a ritroso, potremmo citare il garum orgoglio degli antichi romani.
Le pesche a dicembre? Una vera e propria terapia
Sovvertiamo le stagioni: pesche a dicembre, cavolfiori in agosto e pomodori a Natale. Ciò che oggi è possibile – comunemente – “grazie” alle serre, ai conservanti e alle importazioni globali, ma che finisce col consegnarci frutta e verdura anemica e insapore, diventa – tramite l’arte della fermentazione – la possibilità di gustare prodotti naturali e freschissimi, dopo che sono stati “intrappolati” nel tempo.
Questo fa bene al portafoglio, al corpo e anche alla mente.
Non c’è dubbio infatti, che ogni cosa costa meno quando la si acquista in gran quantità, di stagione, per farne conserve fermentate; inoltre, sono ormai comprovati i benefici per il microbiota intestinale dei cibi fermentati, che contengono i famosi probiotici che nutrono la flora intestinale. Ma se vogliamo, i cibi fermentati possono persino diventare nostri compagni: quando pensi di esser solo in casa, con la tua piatta routine o al contrario, nella morsa degli impegni della vita, all’improvviso senti un sibilo, uno sbuffo, un gorgoglio provenire da quei barattoli lasciati al buio. È la vita: sono i batteri e i lieviti nel pieno del lavorìo per produrre cibi fermentati. Allora ti senti meno perso, meno malinconico: loro ti parlano, gorgheggiano, ti invitano ad annusare il loro acre profumo, o ad aspettare ancora che siano pronti, con la promessa di qualcosa di gioverà alla tua salute.
“Vita nuova” grazie ai cibi fermentati
Soprattutto però, i cibi fermentati ti impongono il loro ritmo: sono loro, imprevedibili, a dettare i tempi, calibrandosi su fattori come l’umidità nell’aria e la temperatura nella stanza. In questo modo ci sottraggono dai nostri schemi ossessivi, dalle nostre routine e dalle manie del controllo. Se vuoi ottenere i piaceri dei cibi fermentati, devi aspettare.
Infine, l’arte della fermentazione è come un’arma: puoi scegliere se provare a conoscerla, ad averne padronanza per far prodigi con il cibo, oppure lasciare che sia lei – inevitabilmente – a prendere possesso del tuo frigo, generando orde di ingredienti andati a male prima che tu te ne accorga.
Alice Tarditi