L’avv. La Torre l’aveva promesso e l’ha fatto: ha presentato la segnalazione sul caso Chino Color a Unar, l’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali. L’abbiamo intervistata per capire gli sviluppi della vicenda e per parlare di discriminazione in ambito lavorativo in Italia.
Ricordate il caso Chino Color Srl? La questione era esplosa su tutti i giornali e telegiornali nazionali qualche settimana fa, riportando il caso dell’azienda di Lumezzane (Brescia) che aveva inviato un preciso aut aut diretto ai fornitori: “se ci invierete ancora corrieri e fattorini di colore, e/o pakistani, indiani e simili interromperemo qualsiasi collaborazione con voi“. Come riportato dal Giornale di Brescia, un’azienda della provincia, tramite il suo amministratore delegato, aveva poi risposto alla mail incriminata, affermando di scegliere i suoi collaboratori per competenza, professionalità e cortesia.
La notizia, come tutte quelle caratterizzate dalla viralità social, aveva fatto esplodere il caso, suscitando reazioni opposte. Molti si erano indignati, altri avevano preso le difese dell’azienda, parlando di “uno sfogo momentaneo“. L’azienda, investita dalla valanga della polemica sui social, si era poi vista costretta a chiudere le proprie pagine social e la sezione dei commenti del sito Internet.
Reazioni sui social, ma non solo
Chi aveva promesso di non lasciare cadere la questione era stata fin da subito l’avvocata Cathy La Torre dello studio bolognese Wildside Human First Legali Associate, che si occupa da sempre di diritti fondamentali, diritto antidiscriminatorio, privacy e diritto delle nuove tecnologie, oltre a collaborare con il Dipartimento Pari Opportunità presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri. L’avv. La Torre aveva infatti comunicato di voler presentare una segnalazione a Unar, l’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali, un organo dello stato attivo dal 2003, avente la funzione di promuovere la parità di trattamento e la rimozione delle discriminazioni fondate sulla razza o sull’origine etnica.
L’impressione superficiale è però quella che i polveroni social tengano occupati Twitter e Facebook per qualche ora, per poi essere sostituiti da una nuova polemica il giorno successivo e far cadere la questione nel dimenticatoio. A distanza di qualche settimana, abbiamo quindi intervistato l’avv. La Torre, per parlare del caso Chino Color, dei suoi sviluppi e sulla salute dell’Italia per quanto riguarda le discriminazioni.
Innanzitutto, partiamo da una panoramica sulla discriminazione in ambito lavorativo in Italia. Come siamo messi?
Non esistono statistiche compiute per quanto riguarda le discriminazioni in ambito lavorativo. Distinguendo tra le varie tipologie, ci sono statistiche che riportano un aumento per quanto riguarda la discriminazione tra uomo e donna, mentre non ci sono dati ufficiali per quel che concerne le discriminazioni LGBT. La reportistica relativa invece alle discriminazioni etniche ha il suo cardine in uno studio annuale emesso dalla Caritas. Questo però non viene riconosciuto dal Governo. Per avere dati istituzionali bisognerà attendere i dati del censimento delle imprese che avverrà entro il 2020. Sicuramente il fenomeno delle discriminazioni in ambito lavorativo è in aumento per quanto riguarda le vertenze giudiziarie e l’incremento riguarda tutti i tipi di discriminazioni. Con l’abolizione dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori è infatti più facile sollevare una discriminazione: paradossalmente questo è l’unico motivo per cui tecnicamente il lavoratore potrebbe richiedere il reintegro.
L’aumento, secondo Lei, riguarda il fatto che si discrimini di più o che invece si denunci di più?
Per quanto riguarda la mia esperienza, nel nostro studio, negli ultimi tre anni, abbiamo avuto un incremento incredibile (più del 60%) di casi di discriminazioni legate alla disabilità, genere, orientamento, identità di genere ed etnia.
Bisogna considerare che più se ne parla, più aumenta la percezione e più emergono solitamente gli episodi di discriminazione. Negli ultimi anni, ad esempio, sono stati resi noti fenomeni come la discriminazione nell’erogazione di servizi. Si tratta dei casi, ad esempio, in cui non si affittano stanze a certe categorie di persone o viene negato l’accesso a un ristorante. Le persone ora si rendono conto che si tratta di comportamenti denunciabili. Non è sicuramente facile capire se siano aumentati gli episodi di discriminazione o siano aumentate le denunce. Da questo punto di vista, sicuramente il clima in cui stiamo vivendo non aiuta. La situazione attuale aumenta l’idea di impunità e la percezione che si possa discriminare senza pagarne le conseguenze.
Nel caso Chino Color, in molti sui social hanno difeso l’azienda dicendo che “A casa propria ognuno fa entrare chi vuole”. Si tratta di un’argomentazione valida?
No. Esiste una legge ed è il Testo Unico di pubblica sicurezza. Afferma che non si può negare l’accesso a un bene o a un servizio (come ad esempio un ristoro in albergo) in base all’origine e all’etnia. Ultimamente però la tendenza, non legittimata da nessuna norma, è quella di dire “Io nel mio albergo o nella mia azienda faccio entrare chi voglio”.
Si tratta di un tipo di discriminazione impensabile, non ammessa prima di tutto dal nostro ordinamento costituzionale.
Secondo Lei, gli strumenti giuridici previsti dal nostro ordinamento per contrastare le discriminazioni sono efficaci?
No, non pienamente. Si ha a che fare con tempi giudiziari comunque piuttosto lunghi. Anche se i processi per discriminazione seguono un rito più snello, si parla comunque di mesi. Oltre alle tempistiche bisogna tener conto poi della sostanziale non deterrenza delle sanzioni: il datore di lavoro può essere condannato a pagare diecimila euro. Cosa sono però diecimila euro per un’azienda rispetto al mantenimento di un posto di lavoro?
L’esposto a Unar quindi è stato presentato?
Certo che sì. Nel caso Chino Color non potevamo infatti agire in giudizio personalmente per le aziende a cui era stata fatta questa richiesta irrituale. Unar, l’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali, solitamente provvede poi a effettuare le opportune verifiche, in primis inviando una lettera alla società. In questo momento storico, però, il dato più efficace è la mobilitazione dell’opinione pubblica. Se ne è parlato ovunque e credo che l’azienda in questione abbia compreso che si trattasse di un’azione impedita dall’ordinamento. A ciò si aggiunge anche un danno di immagine piuttosto grave.
La polemica sui social, però, non rischia di essere invece un fuoco di paglia? A qualche settimana dall’accaduto non se ne parla più ed è come se nulla fosse.
Non è mai come se nulla fosse. Vi posso garantire che ci sono aziende che effettuano misurazioni per verificare quanto i loro clienti si fidino di loro in base al rispetto che garantiscono ai loro lavoratori, il loro orientamento, la loro origine. Il tema che emerge è quindi quello della responsabilità di impresa sociale che viene assolutamente privilegiata. Ci sono aziende che non comprano più da aziende che si macchiano di tali condotte. Come in un altro caso che seguo personalmente, assistendo un grande gruppo veneto, le aziende si dotano di un codice etico e sono sempre più attente alle realtà con cui lavorano. I responsabili delle società che assistiamo ci raccontano come, se non fossero così attenti al rispetto per i lavoratori, nel mondo venderebbero pochissimo: le aziende francesi e tedesche, ad esempio, non comprano da società che si sono macchiate di discriminazioni e trattamenti vessatori. Paradossalmente, oggi è più efficace l’opinione pubblica rispetto alla sentenza di un giudice.
Elisa Ghidini