Chiapas, Messico: storia di una resistenza per un’altra società

Chiapas

Da più di trent’anni in Chiapas, Messico, le comunità indigene che vivono nei territori del sud-est del paese, lottano per realizzare una nuova società. Il modello è quello di un’ organizzazione autonoma e confederale. La realtà che propongono e che, con grande difficoltà, hanno costruito dal basso nel corso degli anni, è quella di una vita estranea alle grandi opere, all’estrattivismo e al narcotraffico. È anche una lotta contro una dura repressione, di cui i media non parlano e che è destinata a rimanere nell’ombra.

La condizione politica e civile in Chiapas 

Il Chiapas è uno dei trentadue stati federati della repubblica del Messico. È storicamente conosciuta come un’ area geografica in cui la condizione degli indigeni è continuamente minacciata. Attualmente la repubblica è presieduta da López Obrador, eletto nel 2018 con il Movimento Rigenerazione Nazionale. Le parole d’ordine del nuovo partito di sinistra, dopo tanti anni di politiche conservatrici, ebbero un grande sostegno da parte della popolazione, sopratutto quella indigena. Si parlava di manovre contro lo sfruttamento ambientale e umano. Inoltre, Obrador fece promesse di rafforzare uno stato di assistenza sociale universalizzata e non più clientelare. 

Ben presto però si è andati incontro a progetti di estrattivismo,  grandi opere e turistificazione. Tante sono state le proteste sociali contro le nuove autostrade e i gasdotti, che coinvolgono anche aziende italiane pubbliche e private. La sentita divisione economica che scinde in due il paese tra la frangia imprenditoriale-clientelare e quella povera, sembra non essere mai cambiata nel corso della storia. Come nel lontano 1520 in cui i dominatori spagnoli assediarono l’Impero azteco sottomettendo gli abitanti, anche oggi l’uomo bianco occidentale sente quello stesso bisogno di colonizzare e razzializzare i popoli indigeni.

Gli abitanti del Chiapas oggi sono costretti a difendersi dalle violenze che lo Stato messicano esercita: morti, sparizioni, sfollamenti. In particolar modo, uno dei più grandi problemi sociali messicani è il narcotraffico, spesso romanticizzato dalle serie tv americane. I gruppi del crimine organizzato sono in stretto contatto con lo Stato centrale, che li usa per aumentare la presenza militare nei villaggi indigeni. Nonostante le numerose chiamate alla resistenza che gli indigeni e le organizzazioni per i diritti umani stanno attuando, ci sono sempre più attacchi armati. Tutto questo senza una risonanza mediatica. 

Le violenze statali, militari e narco-paramilitari

Svanita la speranza di una vita migliore grazie al nuovo movimento progressista, tra la popolazione si è diffuso anche il costante terrore di morire o sparire. Negli ultimi quattro anni, si contano circa 160.000 desaparecidos, cioè persone che sono scomparse e di cui non si sa se siano vive o morte. Uno dei grandi problemi sociali messicani, che lo rende ad oggi un paese di precaria civiltà, è il fenomeno della divisione del popolo. Lo stato messicano lucra sopra questa frammentazione territoriale, affinché si creino delle condizioni di estrema povertà, e che costringano allo svolgimento di lavori al limite della schiavitù.

Lo schiavismo delle condizioni di lavoro sta diventando sempre più accentuato perché, semplicemente, non si sa nulla al riguardo e nessuno lo denuncia.  Dunque il paese, che potremmo definire una repubblica debole e non stabilizzata, è diviso in due grandi schieramenti che delineano i rapporti di potere: i padroni istituzionali elitari e gli schiavi, la cui resistenza viene subito tacciata di terrorismo. 

Numerose sono le violenze che i gruppi militari e narco-paramilitari attuano in tutto lo Stato e in particolar modo nello stato federale del Chiapas. La narrazione più comoda e ingannevole è quella di piccole guerre territoriali, non collegate tra di loro, operate dalle comunità locali. Con questo pretesto, il governo centrale ha allocato un ulteriore corpo militare, la Guardia Nazionale, che ha intensificato gli attacchi alle comunità indigene e zapatiste. Tra questi bracci armati del governo c’è l’Organizzazione regionale del coltivatori di caffè (ORCAO) che ha sempre aggredito le comunità dal 2018, sia con scontri a fuoco sia con incendi dolosi. 

Una resistenza per una società alternativa del Chiapas

Negli ultimi quattro anni, la resistenza che si è registrata è stata una reazione contro le infinite aggressioni che le comunità zapatiste hanno subito. Queste ultime infatti rappresentano in Chiapas un’opposizione politica, oltre che una realtà alternativa, nuova e coesa, fondata sull’autonomia. Si sogna una società organizzata dal basso e orizzontale, senza apparati statali e macchine da guerra.

Nell’occhio del mirino ci sono proprio queste comunità composte da circa 300.000 persone, totalmente autogestite e che denunciano il clima di tensione del paese. I loro componenti definiscono la situazione sull’ “orlo di una guerra civile” e temono un nuovo conflitto che si serve di strategie statali più subdole e invisibili per attaccare  qualsiasi forma di resistenza. Attraverso la lotta al narcotraffico, il governo messicano di Obrador incrementa i numeri di militari e armi,  con il sostegno dell’industria bellica statunitense.

Le  forze dell’ordine hanno anche il compito di distruggere l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN), strumento attraverso cui le comunità indigene hanno potuto sviluppare un’idea di società alternativa. È questa la storia di una lotta politica che cerca di costruire una società basata su una resistenza non violenta. Ma la pace e l’autodeterminazione vengono continuamente compromesse da programmi di espropriazione o occupazioni dei loro territori. Quello che sta accadendo in Chiapas è una lotta culturale, sociale e politica che sta ancora rimanendo nell’ombra ma che ha tanto da insegnare. 

Lucrezia Agliani

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