Questa volta non ci facciamo fregare. Non ci uniamo al coro di quanti polemizzano in modo sterile con una ricorrenza inutile da celebrare ogni giorno e non solo una volta l’anno, né con i difensori a spada tratta della cerimonia, né con quelli che accusano di sessismo i secondi. Semplicemente, se fosse possibile, sarebbe utile cambiare nome alla Giornata contro la violenza sulle donne ribattezzandola Giornata contro il machismo. Perché bisogna sempre andare alla radice dei problemi.
Quella che può apparire una provocazione, è in realtà la radice di una violenza che ha mille altri volti e mille altre forme rispetto ai soliti “occhi neri”, ai “lividi alle braccia”, alle “scarpe rosse” che, come con tutte le modalità comunicative ripetute, rischia l’assuefazione o il falso convincimento che il mostro sia sempre un altro.Tutto parte da quella che la sociologa australiana Connell, nei suoi studi di fama internazionale sulle questioni di genere, ha definito come “mascolinità egemonica”, una sorta di “norma maschile” che garantisce stabilmente nelle relazioni personali e sociali un dominato e un dominatore, un persecutore e una vittima, qualcuno che piange e qualcuno che resta indifferente o addirittura gode del patire altrui. Il machismo, appunto.
Sono tanti i nodi che una singola giornata non affronta. Si guarda bene questa giornata dal mostrare le ferite dell’anima aperte e sanguinanti di donne che, magari non vengono schiaffeggiate o fatte cadere dalle scale, ma ingoiano in silenzio il calice amaro del tradimento. Ma di tutto questo non ci possiamo lamentare, perché la società è maschia e il maschio che tradisce è figo. E’ maschia una società dove una donna non si pone alcun problema etico o morale a stare con uomo mentre un’altra donna magari è a casa sola ad aspettare, convinta magari che il marito sia al lavoro, perché prima della naturale solidarietà umana e femminile viene il godimento individuale al quale sarebbe anatema porre dei limiti. E’ maschia una società che ha fatto dell’individuo e del suo pieno soddisfacimento il metro di misura di tutto. Che baratta sentimenti, che compra e rivende gli affetti come si fa in un grande mercato dell’usato, che usa abusa e mette da parte con un unico criterio: il proprio interesse, l’appagamento personale.
Non usciamo fuori tema. No. Se un tempo aveva senso parlare di violenza sulle donne perché ben definiti erano i canoni e le caratteristiche delle figure maschili e femminili, oggi, come ha evidenziato l’Associazione degli Psicologi Americani, aumenta progressivamente “l’oggettivazione” di entrambi i sessi, l’obbligo di conformarsi a certi canoni e caratteristiche. E questa caratterizzazione ha sempre più l’inclinazione del machismo.
Che non ha colori, non ha orientamenti sessuali: appartiene a donne e uomini, appartiene a tutti. Il machismo della prevaricazione che schiaccia il debole e gioca con i suoi sentimenti. Che usa l’altro per i propri scopi e lo paga con le briciole di un affetto che, per dirla con Battisti, è quel “gaio gesto d’amore che amor non è mai”. E’ questo tipo di violenza, molto più silente e pervasiva, che vorremmo veder combattere oggi e tutti i giorni dell’anno. Una violenza dai mille volti, con vittime e carnefici di entrambi i sessi.
Dobbiamo prendere atto che tanti slogan o prese di posizione ideologiche su questo tema hanno prodotto il nulla o ottenuto l’effetto che nessuna femminista avrebbe mai voluto negli anni ’70: creare la società “maschia”. Più che gli slogan servirebbe una sana rieducazione ai sentimenti, alla prossimità, alla cura e all’attenzione all’altro. I lividi non sono solo quelli sulle braccia e sul volto, ma anche le ferite provocate dall’egoismo di chi si adegua ai canoni della società “maschia”, che pensa solo per se e tutto va bene se sono contento io. E più che parlare di bizzarre norme e organi di pari opportunità, basterebbero quelle pari opportunità di partenza sancite dall’articolo 3 della Costituzione Italiana.