Da qualche giorno sul canale La7 viene pubblicizzata la messa in onda, nel mese di giugno, della serie TV Chernobyl. Un confronto con quanto narrato nel libro Preghiera per Chernobyl, della scrittrice e giornalista premio Nobel per la letteratura Svjatlana Aleksievic.
Per coincidenza, all’inizio della pandemia da Covid-19 sono incappata nel libro Preghiera per Chernobyl, della scrittrice e giornalista premio Nobel per la letteratura Svjatlana Aleksievic. Questi racconti di dolore e ingiustizia, fanno capire quanto la tragedia di Chernobyl sia ancora fortemente attuale; una storia riportata alla memoria dai gravi incendi che hanno interessato la zona di alienazione appena un mese fa. Attuale per il disastro che fu, per le mancanze e le menzogne, per la gestione globale della situzione.
Chernobyl e Covid-19: le analogie
Nel leggere le parole dei protagonisti si riscontrano alcune analogie tra la tragica situazione di Chernobyl e la pandemia da Covid-19 in corso. Sono analogie che parlano di caratteristiche tutte umane: bugie, deresponsabilizzazione, paura ed eroismo, incapacità di accettazione, mancata prevenzione.
Ovviamente si tratta di due tragedie a sé, differenti in tutte le loro caratteristiche e che vanno analizzate in modo indipendente. L’intento non è paragonare la tragicità e mettere a confronto la portata storica e dolorosa delle due vicende. Piuttoso si vuole evidenziare come società e individui, nella loro umanità, possono reagire se messi di fronte gli errori e la non onnipotenza dell’uomo.
L’invisibilità del nemico
Quasi tutti gli intervistati nel libro della Aleksievic, tranne gli uomini di scienza, fanno trasparire nelle loro parole una profonda inconsapevolezza sull’accaduto. Inizialmente nessuno capisce la gravità della situazione: il reattore era sufficientemente lontano da alcune aree e qualcuno stava già occupandosi dell’incidente.
All’inizio dell’epidemia in Cina la situazione da noi era similare. Non ci rendevamo conto di quello a cui saremmo andati incontro; tutto sembrava così lontano, nel tempo e nello spazio. Quel “nemico invisibile” non sarebbe arrivato a colpire anche il nostro sicuro occidente. Le banalizzazioni erano quotidiane.
La normalità che continua
Di nemico invisibile si potrebbe parlare anche in riferimento a Chernobyl: è così che veniva vista la radiazione, come viene chiamata dalle parole degli intervistati. Ed è proprio questa invisibilità ad affievolire le paure di un popolo che aveva conosciuto la fame e i dolori della guerra, la perdita dei suoi cari; il nulla.
Come poteva, questa radiazione, eguagliare gli orrori di quel doloroso vissuto? Molta gente non lo capiva e continuò la sua vita. Continuò a vivere nelle zone contaminate, anche in quella che oggi viene conosciuta come “zona di alienazione”; continuò a vivere di quel poco di cui aveva sempre vissuto: del latte delle proprie mucche e dei frutti della propria terra. Poco importava che fossero contaminati: loro li vedevano crescere più rigogliosi che mai, perché avrebbe dovuto fargli male quello che da sempre gli permetteva di vivere e sostentarsi?
Il ruolo dello Stato
D’altro canto lo Stato non fu particolarmente d’aiuto nel far comprendere la situazione in modo chiaro e tempestivo, né fornì i mezzi necessari per proteggersi o per evacuare le zone. Piuttosto si limitava a vietare.
Uno Stato negligente, impegnato nel nascondere le informazioni e cercare di limitare il più possibile i danni d’immagine, mentre gli eroi della patria morivano per una causa sconosciuta.
La narrazione dell’eroismo
Si, la retorica dell’eroismo era onnipresente nella Russia e Bielorussia dell’epoca colpite da questa tragedia. I pompieri che andarono a spegnere l’incendio furono le prime vittime. Seguirono altri: uomini incaricati di ricoprire la terra attorno al reattore o di sparare agli animali contagiati e seppellirli il più a fondo possibile. Tutti mandati sul campo senza protezioni adeguate, sprovvisti della coscienza di cosa gli sarebbe accaduto ma ben consapevoli del pericolo e della coltre di bugie che si espandeva più della nube tossica. Come quando, ad esempio, i loro turni di lavoro duravano più di quanto raccomandato; o quando i dosimetri dati loro in dotazione non segnavano la reale quantità di radiazioni con cui erano venuti a contatto.
La solitudine della morte
E chi finiva in ospedale non poteva ricevere le visite dei suoi cari; chi moriva non poteva essere pianto dai famigliari perché i funerali erano proibiti. Il rischio di contagio era troppo elevato.
Tutto ciò che rimaneva era una medaglia e il titolo di eroe. Una magra consolazione per le vedove e gli orfani rimasti senza mariti e padri; un popolo colpito da una tragedia di cui non aveva le avvisaglie, né la colpa. Potremmo dire che, seppur in misura minore, le tappe percorse nell’accettazione di questa emergenza sono state simili anche da noi.
Infermieri, medici e personale sanitario: eroi lasciati lavorare per lunghi turni e senza le protezioni adeguate; ripagati da una vuota retorica che non dovremmo accettare in una democrazia moderna.
Chi veniva ricoverato era lasciato solo, perché contagioso; chi ha perso la vita è stato pianto tra le mura di casa.
L’ignoranza di fondo
Certo, qui nessuno ha imbracciato un fucile per uccidere gli animali contagiosi –che contagiosi non lo erano. Eppure l’ignoranza e la poca chiarezza, la paura, hanno portato molte persone a disfarsi dei loro animali domestici, fino alle uccisioni in massa di pipistrelli come successo in Perù.
E cosa dire dello stigma dello straniero? Se nelle nostre strade si inveiva contro cittadini asiatici perché “colpevoli” di questo virus, nella vicenda di Chernobyl chi erano gli untori da evitare?
Dopo lo scoppio del reattore, molti paesi limitrofi alla zona dovettero evacuare e le persone mandate in fretta e furia a prendere i treni. Bisognava dirigersi ovunque ci fosse qualcuno che poteva dare ospitalità.
Ma nelle città ospitanti tutti sapevano chi fossero, non c’era bisogno di avere gli occhi a mandorla. Prontamente gli arrivati si evitavano per la paura che potessero essere contagiosi per via delle radiazioni. Alcune famiglia non furono d’aiuto per i loro cari, rifiutando di ospitarli in casa.
C’era la necessità di disinfettare e gettare tutto: vestiti, oggetti, cibo.
La paura e il sospetto
Nonostante la retorica gonfia di patriottismo da una parte e di unione dall’altra, in entrambe le situazioni i sentimenti di paura e di sospetto, l’individualismo, hanno avuto la meglio sulla collettività, sull’empatia e lo spirito di aiuto reciproco.
Uno spirito che ci è piaciuto cantare dai balconi, negli hashtag sui social, ma di cui già ora ci stiamo dimenticando. E intanto tutto torna a quella normalità che ci ha, in parte, portato a questa situazione.
La mancanza di lungimiranza
Ci scordiamo da dove veniamo e cosa abbiamo vissuto proprio nel momento in cui dovremmo agire e non trovare altri capri espiatori e nemici da additare.
Non accettiamo che l’uomo non sia onnipotente; non accettiamo che la capacità di controllare i disastri è minima se paragonata a una più lungimirante forma di prevenzione.
Dimentichiamo la storia, l’importanza non dell’evento in sé avulso da noi, ma del suo insegnamento e le sue riflessioni. Dimentichiamo Chernobyl e tutte quelle persone che vivono ancora nella zona di alienazione o nelle aree circostanti; volgiamo le spalle anche quando torna a bruciare perché, di nuovo, è lontano da noi, perché abbiamo altro a cui pensare.
Un’altra occasione mancata di diventare gli individui migliori che ci auspichiamo di essere ad ogni nuovo inizio; opportunità inghiottita dalla banalità del nostro essere sempre uguali ai nostri errori.
Marianna Nusca