Fu durante la notte del 26 aprile 1986 che si consumò il disastro di Chernobyl. Alle 1:23 una serie di esplosioni distrusse il reattore nel Blocco 4 della centrale nucleare ucraina, allora Urss.
Si trattava di un reattore sovietico di prima generazione, del tipo RBMK di derivazione militare, soggetto ad imprevedibili sbalzi di potenza. Un disastro tecnologico, quello di Chernobyl, evitabile, causato dall’utilizzo di una tecnologia antiquata e da una serie di errori umani, procedure operative e di sicurezza violate, nonché dall’assenza di una struttura di contenimento della radioattività.
La vicenda che portò all’esplosione
Per il giorno prima era stato fissato un test di sicurezza col quale si sarebbe dovuto verificare se il reattore fosse in grado di sprigionare la potenza necessaria per rimanere in attività anche in caso di black-out. Il test venne rimandato alla notte successiva e i tecnici di turno non seppero gestire l’esperimento. Vennero disattivati i sistemi automatici di sicurezza, incluso il raffreddamento di emergenza. I tecnici sollevarono quasi tutte le barre di grafite necessarie a frenare la reazione di surriscaldamento. Il reattore arrivò a 120 volte la sua potenza massima e il nocciolo fuse, mentre la grafite delle barre di contenimento si incendiò, l’acqua divenne vapore ed esplose, lanciando in aria una piastra di mille tonnellate. Materiale radioattivo si disperse nell’aria, soprattutto iodio e cesio.
Si verificò pertanto un sovraccarico di potenza e la procedura di emergenza attuata dai tecnici non fece che esacerbare l’esplosione imminente. Una serie di violente esplosioni seguirono, scoppiò un incendio causato dalla fusione del nocciolo rimasto scoperto e i fumi radioattivi si dispersero nell’atmosfera.
Un costo umano difficilmente stimabile e a lungo termine
I morti a causa dell’incidente furono inizialmente una trentina, ma negli anni seguenti la contaminazione radioattiva uccise migliaia di persone. L’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che, negli anni seguenti, 4mila-9mila persone morirono a causa della dispersione delle radiazioni. Mentre Greenpeace e altre associazioni ambientaliste avanzano numeri crescenti, includendo tutti i casi di tumori e leucemie che si manifestarono negli anni a venire. Si consideri che le emissioni di radioattività sprigionata dall’incidente furono 200 volte superiori alla potenza della bomba atomica sganciata su Hiroshima. La catastrofe è ancora lì, il mostro radioattivo di Chernobyl respira ancora e continuerà a farlo per secoli.
Un vastissimo territorio è ancora contaminato, a più di 30 anni di distanza: campi coltivati, villaggi, aree rurali densamente abitate, boschi, corsi d’acqua, irrimediabilmente compromessi per secoli. La salute della natura e dell’uomo è stata messa a repentaglio, in un luogo dove si registrano ancora alti livelli di povertà e condizioni di vita difficili, che si legano strettamente alla contaminazione radioattiva.
Una fortissima radioattività a macchia di leopardo è ancora presente in numerose aree abitate. Nel cibo si rintracciano radionuclidi che abbassano le difese immunitarie e sono correlati alla sviluppo di patologie di vario tipo, in prima istanza tumorali. La vita di oltre tre milioni di persone, che vivono nelle aree contaminate di Russia, Bielorussia ed Ucraina, è appesa ad un filo ancora più sottile.
La questione politica nella gestione dei disastri ambientali e tecnologici
Il disastro si aggravò a causa della malagestione politica e organizzativa dell’incidente. Erano gli anni delle trasformazioni politiche interne all’Urss, ma anche gli anni in cui la guerra fredda era ancora calda.
Da una parte, furono lente le operazioni di evacuazione di Pripyat (43mila abitanti) e dei villaggi circostanti, come furono inadeguate le misure adottate per proteggere dalle radiazioni la popolazione e i 600mila ‘liquidatori’ inviati dal Cremlino per gestire l’incendio che persistette per dieci giorni. L’allarme venne lanciato soltanto due giorni dopo, il 28 aprile, e non da parte sovietica. Il presidente Gorbaciov fu costretto ad ammettere il disastro, ma lo fece solo il 14 maggio successivo.
La differenza tra disastri ambientali e tecnologici è sempre più sfumata
L’incidente di Chernobyl rientra ovviamente nel novero dei disastri tecnologici, i quali pongono degli interrogativi e delle problematiche differenti rispetto ai classici disastri ambientali. La principale differenza risiede nell’attribuzione della responsabilità. Se molti disastri ambientali sono evitabili solo se si possiede la capacità di prevederli e rispondervi prontamente, per i disastri tecnologici è implicito un allarme intrinseco; il rischio è intrinseco a certi apparati tecnici. Nonostante ciò, molto spesso la minaccia e il rischio sono stati sottovalutati, come è avvenuto per Chernobyl e come avviene nei riguardi del cambiamento climatico.
I disastri ambientali che si registrano ogni giorno sono sempre più spesso correlati al cambiamento climatico in atto. Questa differenziazione tra disastri ambientali e tecnologici è sempre più sfumata. La responsabilità è nota a tutti: sono gli ultimi secoli di incontrollata produzione di CO2, utilizzo dei combustibili fossili, deforestazione illimitata a produrre lo scenario odierno. La responsabilità è collettiva, ma al contempo frammentaria.
La sfiducia e le comunità corrosive
Solitamente, all’indomani dei disastri, non si giunge ad attribuire responsabilità precise. La responsabilità è di coloro che si occupano in vario modo delle vite altrui, ma costoro sono dispersi, sono ovunque, siamo noi. Ciò provoca da una parte una devolarizzazione della vita umana, dall’altra un aumento della conflittualità sociale e uno sconvolgimento dell’ordine sociale stesso. Si delineano comunità corrosive e il tema della responsabilità si specchia con quello della sfiducia: la sfiducia nei riguardi dei saperi esperti, quelli che sorreggono la società. La sfiducia penetra nella scienza e nella tecnologia, mentre la responsabilità diventa collettiva, spalmata su tutti come su nessuno.
Il concetto di responsabilità si è ampliato
Gli scioperi a difesa del clima, contro il cambiamento climatico hanno peculiarità differenti rispetto al passato. Non si sciopera per il posto di lavoro, per la riduzione delle ore di lavoro, per condizioni di vita migliori nel presente. Si sciopera in difesa del futuro. Ciò sottende un concetto di responsabilità che si è ampliato, che abbraccia le generazioni future, che abbraccia la natura. Siamo precipitati dentro la natura, dopo secoli in cui abbiamo preteso che l’uomo potesse ergersi al di sopra di essa, come qualcosa di scorporato dalla natura in grado di educarla e dominarla. Il dualismo si è rotto e ora l’adattamento è una sorta di autoinganno che ci raccontiamo, in assenza di una vera pianificazione politica e scientifica che sappia affrontare i cambiamenti in atto.
Giulia Galdelli