Da qualche tempo non si parla d’altro che di intelligenza artificiale. Chiacchiere quotidiane ormai pervase da inglesismi e tecnicismi, si sono impreziosite dell’ennesimo termine rubato al vocabolario anglosassone e di chiara matrice tecnologica. Ai già largamente maneggiati software e cloud, si aggiunge il fiammante Chatbot. L’entusiasmo per l’ennesimo surrogato alla cognizione umana ha, però, schiacciato in secondo piano i retroscena del progresso tecnologico, calando un silenzioso velo di indifferenza sul lato oscuro dell’intelligenza artificiale. Eppure, parliamo di più di 50.000 lavoratori sfruttati. Questo è quello che emerge da una recente inchiesta condotta dalla rivista Time.
Il lato oscuro dell’intelligenza artificiale: automatismo, disoccupazione, sfruttamento
Che le macchine avrebbero finito per sostituire l’uomo è una profezia che circola da almeno 80 anni. Ma ancora pare che nessuno si sia domandato quanto profondo sia il lato oscuro dell’intelligenza artificiale. Era il 1945 quando il fisico e scrittore fantascientifico Clarke vagheggiava su un futuro in cui le stazioni spaziali avrebbero potuto addirittura trasmettere segnali televisivi. Lo dichiarava in un presente in cui il televisore era un apparecchio posseduto da pochi. Neanche vent’anni più tardi un satellite di telecomunicazioni trasmette il primo segnale televisivo transatlantico.
Previsioni tanto precise quanto allarmistiche vengono rilasciate agli arbori degli anni ’80 anche da Asimov circa la società del futuro. Con una lungimirante pronostico, lo scrittore russo ipotizza una totale computerizzazione della quotidianità, esacerbata dalla frenesia che avrebbe investito il Ventunesimo secolo. Intanto il nuovo millennio è arrivato e ha portato con sé tutte le variabili implicite nel progresso, mandato sempre più in orbita dalla necessità di velocizzare, smaltire, automatizzare. Secondo la società di ricerca Forrester la conseguenza della robotizzazione porterà alla perdita del 25% dei posti di lavoro in meno di vent’anni. Certo non tutto il processo produttivo può essere affidato all’impassibilità delle macchine. Il lavoro dell’uomo sarà sempre necessario, anche se spesso, troppo spesso, sfruttato e malpagato.
Le promesse dell’intelligenza artificiale: una trasformazione epocale nel mondo del lavoro
Dal campo artistico a quello medico, passando per le energie sostenibili e la scrittura. Pare che ormai ogni tassello della società sia destinato ad essere padroneggiato dall’intelligenza artificiale. D’altronde, ormai, chi potrebbe fare a meno di chiedere ad Alexa di impostare un timer che scandisca l’attesa della cena o a Siri di condurci verso il ristorante prenotato? Non si tratta di robot asettici a cui comandare un’azione da compiere al posto nostro ma di vere e proprie macchine semi-umane con le quali interagire. Branca sostanzialmente nuova dell’informatica, l’intelligenza artificiale si occupa della fabbricazione di strumenti dotati di un ingegno capace di riprodurre azioni che generalmente presuppongono l’intelligenza umana.
A differenza degli ingegni computerizzati, meccanici, precisi e abulici, l’AI è programmata per interagire con l’ambiente e acquisire da questo informazioni. La risposta dei marchingegni sarà quindi preformata sugli stimoli acquisiti, implementando le abilità umane. Se è vero, infatti, che vi sono professioni che non potranno mai essere sostituite da dispositivi senz’anima, d’altra parte bisogna ammettere che sui “biga data”il cervello umano non potrà mai competere con l’intelligenza artificiale.
OpenAi e il rilancio dell’economia mondiale
Attualmente, sono almeno 450 le startup che lavorano sull’IA generativa. OpenAI, diventato ormai celebre nel ramo in questione, nasce nel dicembre del 2015 a San Francisco. La forma legale rispecchia i canoni dell’ente senza scopo di lucro, il cui obiettivo pare essere la garanzia che l’intelligenza artificiale possa recare benefici all’umanità intera.
Per il momento, l’unica certezza è che, nella conca dorata della Silicon Valley, le transazioni economiche di OpenAI stiano navigando a vele spiegate. Qualora i finanziamenti in ballo dovessero andare in porto, infatti, l’organizzazione potrebbe spingersi verso la valutazione record di 29 miliardi di dollari. Se aggiungiamo poi i neonati investimenti operati dalla Microsoft, definiti dall’azienda stessa pluriennali e multimiliardari, assume le fattezze del cristallo la direzione intrapresa da OpenAI.
ChatGPT, il fiore all’occhiello di OpenAI
Permette di elaborare, in automatico, un linguaggio naturale, articolato e poliedrico in pochi minuti. Ricevendo il giusto input, ChatGPT, acronimo di Generative Pretrained Transformer, è in grado di creare contenuti scritti di medio-alto livello, utilizzabili nei più disparati campi di scrittura. Si tratta, quindi, di una chatbot – per chi, come me, non ha molta dimestichezza con l’informatica, altro non è che un software – capace di emulare intere conversazioni umane.
E di farlo rispettando standard molto alti, tanto da sostituirsi alla cognizione umana, sensibile, emotiva, istintiva e, per questi attribuiti, esposta all’errore. In effetti, l’intelligenza del software è davvero sconcertante. Si può chiedere, ad esempio, a ChatGPT di scrivere un riassunto antologico, formulare una ricetta, redigere una relazione sociale e, addirittura, elaborare un articolo in ottica Seo. Nella redazione, tra l’altro, il software dà prova di avere competenze che, generalmente, costituiscono virtù umana. La creatività, per dirne una su tutte.
Il lato oscuro dell’intelligenza artificiale svela i retroscena dello sfruttamento lavorativo
Nonostante le sovrabbondati doti dell’intelligenza artificiale, permangono, però, attività che non possono completamente essere demandate all’automatizzazione informatica. Sul dorso della straordinaria capacità di generazione dei testi, rimane la necessità di addestrare il software al blocco dei contenuti contrari all’etica sociale. Un proposito fuor di dubbio benevolo, mutato, però, in fase di esecuzione. Per ovviare all’incapacità di ChatGPT di utilizzare un linguaggio moralmente scorretto, OpenAI si è affidata alla Sama, società sorta a San Francisco che gestisce una filiale in Kenya. Una recentissima inchiesta soprintesa dalla rivista Time, svela cosa si nasconde dietro questo addestramento, in carne ed ossa, del sistema.
Per dotare ChatGPT di buon senso, OpenAI ha inviato alla Sama migliaia di estratti di testo a fronte di un contratto da 200.000 dollari, obbligando i dipendenti della società all’ascolto e alla visione di contenuti violenti, volgari e razzisti. Si tratta di un lavoro almeno ben pagato? Non lo abbiamo pensato neanche per un momento, suvvia. Il compenso previsto è di 1,32 – 2 dollari all’ora, a fronte della sconveniente mansione assegnata. Non parliamo neppure di numeri iniqui. Sono stati oltre 50.000 gli etichettatori esposti, per più di nove ore al giorno, alla catalogazione di stupri, violenze, pedofilia, omicidi, incesti e scene raccapriccianti. Insomma, l’ennesimo caso di sfruttamento 2.0, quello che erge miliardi sul lavoro sporco di chi probabilmente non arriverà mai neppure ad utilizzare lo strumento. Il mandato virtuoso di ripulire il web da tutti i mali dell’universo finisce così per mutare sostanza quando si misura con il mondo reale.
Martina Falvo