Sulla copertina di un suo disco appare come un omone dall’aspetto formidabile, sorridente, seduto su una poltrona coloniale, vestito interamente di bianco. Sullo sfondo alberi tropicali. Sembra il padreterno. Il disco s’intitola Cumbia & Jazz Fusion. L’ascolto del pezzo omonimo lascia senza fiato. Immagini il paradiso terrestre, l’apparizione dell’uomo e il manifestarsi del suo genio nei suoni.
In quel pezzo Mingus da forma ad un racconto visionario, che dai suoni ancestrali della Cumbia, nata in Colombia per mano degli schiavi africani, si evolve negli altri generi afroamericani, fino alla massima espressione: il Jazz. Solo un genio, che incarnava in sé tutte le anime dell’America, poteva dar vita ad una composizione così affascinante.
Anzi, più che un genio, un dio della musica. E anche madre natura dovette riconoscere la sua origine divina. Perché nel giorno della sua morte, avvenuta il 5 gennaio del 1979, all’età di 56 anni, 56 capodogli si arenarono sulla spiaggia di Acapulco, lasciando esterrefatti i suo colleghi.
Le origini
Suo padre era mulatto, madre svedese e padre di colore. Sua madre era metà cinese e metà pellerossa. Charles Mingus era un meticcio. Un bastardo, come si autodefinì nella sua biografia romanzata del 1971, intitolata per l’appunto Peggio di un bastardo (Beneath the Underdog).
Le sue origini faranno di lui un disadattato, sempre sull’orlo dell’implosione, perennemente in analisi. Mingus, vorace di musica, cibo e sesso, possedeva molte facce. Sul lavoro era estremamente esigente, con gli altri e con se stesso. Era capace di enormi slanci di generosità e dolcezza. Ma allo stesso tempo si abbandonava a terribili accessi d’ira e a momenti di sconforto.
Charles Mingus nasce il 22 aprile del 1922 a Nogales, in Arizona, vicino al confine messicano. La madre muore dopo tre mesi. Il padre si risposa subito, e si trasferisce con la famiglia a Los Angeles. Charles comincia a studiare musica a otto anni, trombone e poi violoncello. Trova anche il tempo per diventare un pianista notevole. Ma a quindici anni elegge il contrabbasso come strumento della vita.
Ha un sogno: suonare in un’orchestra sinfonica. Ma all’epoca non c’è spazio per i neri. Il mondo della musica classica è solo per bianchi. Poco importa se sa suonarla meglio loro. Una delusione che porterà dentro di sé per tutta la vita.
E che si aggiungerà ai tormenti di un’infanzia turbata dai pregiudizi razziali, dalla violenza del padre, dalla sciatteria della matrigna, dall’handicap fisico di un piede valgo, e da un amore adolescenziale sfortunato.
Ma Charles ha un temperamento volitivo, turbolento ma inarrestabile. Così trova la sua strada nel Jazz, la musica dei neri. Senza però mai dimenticare il suo primo grande amore musicale. La sua grandezza risiede nell’aver unito il Jazz all’opera sinfonica.
Nelle sue composizioni ritroviamo ciò che apprese dal grande pianista Art Tatum e da Duke Ellington assieme agli insegnamenti di Stravinsky e Debussy. Con Mingus l’orchestra jazz ha suonato con la forza e la complessità di un’orchestra sinfonica.
Il successo
A trent’anni Charles collabora con Duke Ellington. Ma è solo l’ultima di una serie di collaborazioni di livello stratosferico. Tra il 1943 e il 1953 suona dal vivo e in studio con i miglior jazzisti dell’epoca. Da Louis Armstrong a Dinah Washington, da Billie Holiday a Charlie Parker, da Miles Davis a Dizzy Gillespie, giusto per fare qualche nome.
Tra la seconda metà degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta Mingus sprigiona tutta la sua energia creativa. Ha inizio la sua scalata all’Olimpo del Jazz. E regala al mondo, con un ritmo serrato, una serie impressionante di capolavori. Non è un caso che in quel periodo sia conteso dalle migliori etichette: Atlantic, Bluebird, Affinity, United Artists.
Tra febbraio e marzo del 1957 incide The Clown. Tra luglio e agosto New Tijuana Moods. Nel 1959 fa ancora meglio. A gennaio registra Wonderland. In febbraio Blues & Roots. Poi a maggio Ah Um. E a novembre Mingus Dynasty. Nel 1960 realizza quattro album per la Candid. Tra questi c’è Presents, considerato uno dei migliori di sempre.
In più trova il tempo per esibirsi in Europa, con una formazione spettacolare, tra cui Eric Dolphy. Al festival di Antibes è un trionfo. Poi torna a casa e organizza un contro-festival a Newport, scompigliando le istituzioni musicali.
Nel 1961 incide solo Oh Yeah. Nell’autunno dello stesso anno tiene un concerto disastroso per big band alla Town Hall di New York, durante il quale prende a pugni in pubblico Jimmy Knepper, uno dei suoi musicisti più bravi. Verrà processato e condannato. Nel 1963 da alla luce una pietra miliare come The Black Saint and the Sinner Lady, e l’atipico Plays Piano. Registra lo splendido Mingus, Mingus, Mingus, Mingus, Mingus.
Declino e rinascita
Nel 1964 si concede più tour europei. Sono concerti memorabili. Ma la morte improvvisa di Dolphy, a soli trentasei anni, è per Mingus un colpo duro da incassare. La psiche vacilla. I concerti diminuiscono, le case discografiche non lo cercano più.
Nel 1966 viene ricoverato in un ospedale psichiatrico e si ritira dalle scene. Ridotto in miseria, nel 1967 viene sfrattato e torna in California, dove fa perdere le proprie tracce. Ma Charles Mingus è un dio. E rinasce come la fenice. Prima con la registrazione di Let My Children Hear Music, nel 1971, e poi nel 1974 con uno storico concerto alla Carnegie Hall.
La morte di un dio
In seguito arriveranno altri dischi meravigliosi, proprio come Cumbia & Jazz Fusion, che è del 1978. Ma anche la malattia è in agguato. Morirà nel 1979, per un infarto dovuto a una malattia rarissima, la sclerosi amiotrofica laterale (il morbo di Gehrig), che da tempo lo costringeva sulla sedia a rotelle.
Un finale crudele per un uomo rinato. Non fece nemmeno in tempo ad ascoltare l’omaggio di Joni Mitchell. Le sue spoglie furono cremato e le sue ceneri vennero disperse nel Gange. Le ceneri di un dio che ha scritto musica immortale. Ecco tre brani che vi faranno innamorare di lui: Cumbia & Jazz Fusion, Adagio ma non troppo, Cryin’ Blues.
Michele Lamonaca