Vi sono esistenze che si sfiorano senza toccarsi, percorsi intrecciati da una casualità beffarda, destini che si specchiano in una crudele ironia. Charlie Chaplin e Adolf Hitler sono le due facce di una medaglia incisa nel XX secolo: nati a pochi giorni di distanza nell’aprile del 1889, entrambi sono stati maestri della rappresentazione. Due figure iconiche, due baffetti sottili che evocano, nel loro ossimoro vivente, il riso e il terrore. Uno trovò nella risata il riscatto, l’altro nell’odio la disfatta. Il primo sublimò il dolore in arte, il secondo lo incarnò in ideologia.
Radici comuni, esiti opposti
Chaplin e Hitler furono figli della precarietà. Il primo, orfano di certezze nei sobborghi londinesi, tra l’assenza del padre e la fragilità mentale della madre, comprese presto che la risata poteva essere scudo e salvezza. Il giovane Hitler, invece, vagò inquieto per l’Austria, coltivando il sogno di diventare artista. Ma la sua sensibilità non si tradusse mai in una ricerca della bellezza, bensì nell’ossessione per il potere e nell’individuazione di nemici su cui riversare il proprio fallimento.
Entrambi si affacciarono alla modernità con un senso di esclusione: Chaplin imparò a sopravvivere tra le macerie della povertà con il linguaggio universale del corpo, Hitler scelse di incanalare la propria frustrazione nella retorica incendiaria. Due sguardi sul mondo, uno intinto nella poesia del quotidiano, l’altro avvelenato dalla sete di dominio.
L’immagine: risata o propaganda?
Chaplin divenne il poeta della pellicola muta, un maestro nel raccontare la fragilità umana attraverso la mimica e la satira. Utilizzò la settima arte per esprimere una critica sociale sottile ma potente, capace di travalicare le barriere linguistiche e culturali.
Il mondo stava ancora cercando di riprendersi dagli strascichi della Grande Guerra. La miseria e la disillusione permeavano l’Europa e gli Stati Uniti, mentre il cinema, ancora giovane come mezzo espressivo, cominciava a imporsi come veicolo di narrazione universale.
Chaplin andò oltre il mero intrattenimento e portò in scena Charlot, un vagabondo emarginato. Nel suo primo lungometraggio “Il monello“ (1921), Charlot era il simbolo degli ultimi, dell’uomo schiacciato ma mai domato, incarnando il valore della solidarietà al di fuori delle convenzioni borghesi.
Hitler, invece, uomo assetato di rivalsa, comprese fin da subito il potenziale della comunicazione visiva per guidare le masse verso un progetto totalitario. Mise in scena sé stesso con una regia ossessiva, plasmando il Reich come una scenografia in cui il popolo doveva adorare il suo protagonista assoluto. Laddove Chaplin liberava e disinnescava il potere con la risata, Hitler lo consolidava con il terrore e pretendeva di incantarlo.
Lo scontro simbolico: “Il grande dittatore“
La vera collisione tra i due avvenne nel 1940, quando Chaplin sfidò apertamente Hitler con “Il grande dittatore“, mentre il mondo tratteneva il respiro. Fu un atto di sovversione artistica senza precedenti: in un’epoca in cui molti esitavano a opporsi al nazismo, Chaplin ebbe il coraggio di ridicolizzare Hitler. Il film, una parodia impietosa del regime nazista con la sua satira tagliente, anticipò di un anno l’ingresso degli Stati Uniti nella Seconda Guerra Mondiale.
Chaplin smascherava Hitler nella sua follia megalomane e, soprattutto, gli negava il rispetto che il dittatore esigeva. L’apice si raggiunse nel celebre monologo finale che ribaltava la logica stessa della propaganda: un inno all’umanità e alla libertà, un invito alla fratellanza universale, l’antidoto all’odio. Il dittatore fittizio abbandonava la retorica bellicosa per un messaggio umanista.
Hitler, colui che pretendeva di riscrivere il mondo con la violenza, venne umiliato con una risata.
Chi sopravvive alla storia?
Alla fine della guerra, il sipario calò sul Reich. Hitler si dissolse nel nulla, la sua immagine ridotta a un incubo da ricordare per non ripeterlo. Chaplin, invece, sopravvisse all’erosione del tempo con l’arte autentica.
Il dittatore ha lasciato rovine, l’artista ha lasciato risate. Se il primo voleva dominare il tempo, il secondo lo ha vinto.
Michela Rubino