Il CESE (Comitato Economico e Sociale Europeo /EESC) è un organo consultivo dell’Unione Europea e istituito nel 1957. Si occupa di fornire consulenza qualificata alle maggiori istituzioni dell’UE (Commissione, Consiglio e Parlamento europeo) attraverso la formulazione di pareri sulle proposte di leggi europee, oppure di propria iniziativa. E’ diviso in tre gruppi: “Datori di lavoro”, “Lavoratori” e “Attività diverse”.*
Luca Jahier è un giornalista, politologo nel campo internazionale ed esperto di associazionismo di promozione sociale, che annovera nel suo curriculum numerosi incarichi di prestigio.
Attualmente, è Presidente del III gruppo del CESE, per il mandato 2015-2018.
Noi di Ultima Voce lo abbiamo intervistato per conoscere meglio le “Attività diverse” del Comitato, il contributo diretto che apporta e le sue impressioni su questa Unione Europea che a noi cittadini appare talvolta troppo lontana.
Di cosa si occupa esattamente l’attività del III gruppo del CESE?
Insieme con gli altri due gruppi cerchiamo di rappresentare tutte le organizzazioni sociali, economiche e culturali, con i relativi interessi, dei 28 Stati membri.
Nello specifico ci occupiamo di tutte quei gruppi della società civile che si sviluppano in ambito economico, civico, professionale e culturale: tutto il mondo dei datori di lavoro, delle grandi imprese, dell’agricoltura, delle libere professioni, delle banche, dei lavoratori dipendenti.
A tal proposito, anche dei sindacati e del loro rapporto con le imprese, cercando di mediare e articolare i diversi interessi. Questo lavoro di mediazione è fondamentale e avviene anche tra consumatori e ambientalisti, ad esempio.Altro compito del III gruppo, oltre a quello ulteriore di elezione dei rappresentanti, è quello di sviluppare temi il cui contenuto assume forma prioritaria nell’agenda europea: quali la sicurezza ambientale, l’economia sociale, le organizzazioni liberali, le imprese sociali. Nella sua azione più ampia, cerca il dibattito, al fine d’individuare ogni possibile convergenza di opinioni e interessi. Ciò risulta spesso non di facile realizzazione: temi ampi come lo sviluppo sostenibile e il volontariato europeo hanno implicazioni diverse per ogni Stato.
Ulteriore attività riguarda il costante rafforzamento del legame coi territori locali. Un tempo, l’importante era “arrivare” a Bruxelles, oggigiorno risulta necessario trovare anche un’ampia sintesi tra istituzioni e realtà locali, cercando di creare un ponte di comprensione reciproca.
Potresti farmi qualche esempio di quest’ultima attività di mediazione?
Abbiamo organizzato un evento per fine giugno che vede protagoniste le due “Irlande”, al fine di comprendere meglio la situazione sociale di studenti, lavoratori ed aziende agricole: vogliamo renderci sempre conto di persona di cosa significano certe politiche per la popolazione locale, così da riportare un’idea concreta a Bruxelles. Vogliamo capire di cosa possa significare realmente per queste persone una problematica che si è creata come quella della Brexit. Sai, immagina se tu fossi un produttore di latte e formaggio in Valle d’Aosta che compra le mucche in Piemonte; ed improvviso, ti mettessero una barriera: quante difficoltà ti si verrebbero a creare?
Abbiamo fatto parecchie missioni di questo tipo, come quella per la crisi greca. Ce ne sono state 11 solo l’anno scorso.
Qual è il progetto che ti “assorbe” maggiormente in questo periodo?
Abbiamo iniziato mesi fa un grosso lavoro sulla cultura come sviluppo, creando una rete di comunicazioni per diffondere il patrimonio culturale dei differenti Stati.
In previsione c’è anche una grossa conferenza sullo sviluppo sostenibile, a cui forniamo numerosi e notevoli punti di rilancio.
Per non parlare della grossa iniziativa in previsione a Roma in memoria di Alcide de Gasperi.
Si avverte spesso la sensazione di un’Unione Europea “distante” e incentrata solo sul lato economico. A cosa è dovuto secondo te ed è effettivamente così?
Al riguardo bisogna fare due ragionamenti.
In primo luogo, dobbiamo dire che ad essere in crisi come figura di rappresentanza sono tutte le istituzioni, non solo l’Unione Europea. Alla fine, le uniche che ancora sopravvivono sono quelle più strettamente vicine al cittadino, ossia i comuni. Se ci pensiamo, persino le regioni sono in crisi.
Il cittadino non si fida più dell’istituzione statale, figuriamoci dell’Unione. Siamo in un periodo di forte cambiamento e crisi generalizzata ad ogni livello, soprattutto economica: l’impoverimento reale è molto forte e vede un quinto della popolazione; e l’altra parte che non sta toccando il fondo, non vede comunque crescere le sue prospettive future, alimentando la preoccupazione generale.
Alla luce di tali fattori, se uno guarda l’insieme, l’indicatore UE non ha meno consenso di altre istituzioni. Altrimenti non si spiegherebbe come, in Francia, addirittura tre su quattro candidati facessero per nulla parte del sistema nazionale. La maggior parte dei partiti che attualmente dominano la scena europea è totalmente nuova al sistema, se non addirittura anti-sistemica: tolta la situazione tedesca, l’opposizione agli schieramenti classici è la prassi. Pensiamo alla vittoria della Brexit, che ha sconfitto tutta la classe dei conservatori.
La rottura istituzionale è dovuta alla rottura dell’antico patto sociale: lavoro duro, pago le tasse, ma ho il futuro assicurato.Il secondo ragionamento riguarda la centralità economica dell’Unione Europea, che spiega un poco anche questa sensazione di distanza a livello più politico. L’importanza dell’economia per l’Unione appare quale evoluzione logica e necessaria vista la sua storia e come si è venuta a formare. Stiamo effettivamente tornando a quella vecchia logica di politica della difesa, ma che risulta inevitabile visti i tempi in cui ci troviamo: con la crisi finanziaria prima e il debito pubblico poi, è risultato necessario occuparsi prima di queste problematiche più urgenti che di altre questioni.
D’altronde, se da un lato si è potuto evitare il disastro peggiore per certe aree, dall’altro si è stati costretti a pagare un prezzo altissimo: disoccupazione giovanile alle stelle, netto distacco lavorativo tra nord e sud e crescente divergenza tra est ed ovest.
Come si potrebbe diminuire questa lontananza tra UE e cittadini e rendere più efficaci le soluzioni della prima?
Riprendendo il discorso di prima, la presenza delle istituzioni europee non è da considerarsi però assente su altre tematiche fuori dall’aspetto economico: la “distanza” viene anche avvertita perché i singoli Stati non sono spesso in grado di riportare correttamente e realmente i provvedimenti europei.
La problematica riguardante l’immigrazione, ad esempio, è stata lungamente affrontata: il ricollocamento è stata una tematica centrale degli ultimi tempi; ma richiede l’impegno di tutti e sarebbero necessari un po’ più di fatti all’interno delle nazioni e molte meno parole. Rappresentanti e politici spesso acconsentono ad ogni decisione, rettificando poi una volta rimpatriati, accusando Bruxelles di inefficienza e dimenticandosi totalmente del loro assenso.
Esempio lampante è l’Ungheria: tutto l’ultimo anno, i votanti contro le decisioni sull’immigrazione al Consiglio Europeo si contavano sulla mano, però una volta rientrati nel Paese, rendevano inapplicabile ogni provvedimento.
Così non andremo mai da nessuna parte.Se invece di contrastare o ignorare le decisioni europee, fossimo sempre più uniti ed efficaci, come lo siamo stati lo scorso 25 marzo a Roma, ecco che il cambiamento arriverebbe. In questa occasione c’è stato il vertice dei capi di Stato e di governo dell’UE per celebrare i 60 dei Trattati di Roma: una sintetica e pregnante lista di azioni concrete che, se messe in pratica, cambierebbero davvero il volto di questa Europa… facendoci uscire dal tunnel verso l’alto.
*Per maggiori informazioni sul CESE e i sui gruppi, visitare il seguente link dell’Unione Europea: https://europa.eu/european-union/about-eu/institutions-bodies/european-economic-social-committee_it#composizione
Isabella Rosa Pivot