Leoluca Armigero
Ho pensato alla mia donna delle pulizie che si chiama Emilia. Non è vero, non si chiama Emilia. Lei è moldava e io ho preteso, in onore della mia terra, di chiamarla Emilia. Ognuno dovrebbe chiamare le persone come crede, soprattutto le persone che entrano in casa tua. Sono pagate e quindi possono far cambiare il loro nome.
Queste le testuali parole del celebre cantante italiano Cesare Cremonini durante la sua intervista nel programma televisivo “E poi c’è Cattelan”, su Sky1, con il conduttore Alessandro Cattelan (classe 1980) che rideva fra il divertito e l’imbarazzato. Una gag riuscita male forse, sfociata in una serie di improperi nel linguaggio e nelle idee. È il caso di “contestualizzare”, come si dice adesso, oppure queste parole vanno condannate senza se e senza ma? Senza giustificare adducendo la scusa banale della chiacchierata scherzosa fra amici. Anche perché erano in tv, gli amici.
«Siamo riusciti – nella stessa frase – a mettere insieme: sessismo, razzismo/colonialismo, classismo, sovradeterminazione o comunque la convinzione che basti pagare perché il nome della tua terra diventi più rilevante di quello di una donna moldava» scrive il blog Instagram ÆSTETICA SOVIETICA, da cui parte la denuncia.
E ancora, nei commenti: “Cattelan ha delle responsabilità. Era una puntata registrata. Possibile che né a lui, alla produzione, al regista, le parole di Cesare Cremonini (e le risate di Cattelan) siano sembrate gravissime?”
Questo sketch, orgogliosamente postato sui social dall’artista bolognese, si iscrive in un momento storico di grande rilievo rispetto ad una riflessione che nasce negli Stati Uniti, dai moti di protesta contro il razzismo, e arriva in Italia – dove con il dibattito sul colonialismo si estrinseca nella discussione su Indro Montanelli: è il caso di mantenere in piedi una statua dedicata al grande intellettuale, che fu anche un grande pedofilo?
Ma forse le più dure a morire sono le statue del presente, quelle prive di materialità e talmente intrinseche al nostro modo di pensare che fanno di noi tutti dei complici, del nostro modo di parlare un mezzo per perpetuare alcune di disuguaglianze. Riteniamo normale cambiare il nome di una colf italianizzandolo? Non lo è, tanto meno se ci sentiamo autorizzati a farlo fintantoché paghiamo. O per rendere omaggio alla nostra terra.
«Ora: abbattete pure tutte le statue del mondo, colorate di arcobaleno le vostre bacheche – incalza il blog – ma se ritenete che questa intervista sia normale e che questa riflessione in merito sia esagerata… Probabilmente state seguendo un trend e vi siete persi qualche passaggio.»