Quella di Ernesta Bittanti è una vita racchiusa nell’appello “Viva l’Italia!”

Di Paolo Brogi

 

A cento anni dalla loro morte un libro cerca di ritrovare nelle vicende biografiche di Cesare Battisti e di Nazario Sauro le ragioni del loro sacrificio. E “Impiccateli!”, un testo equamente diviso tra le due vicende umane dei due irredentisti.

Ma l’occasione è stata anche la scoperta a fianco di Battisti della moglie, Ernesta Bittanti, convinta militante socialista e poi nel tempo fedele testimone delle idee del marito con una forte capacità di respingere e contrastare l’ “abbraccio” fascista. Vale la pena occuparsene. E di lei è utile parlare.

Battisti l’aveva conosciuta durante i suoi studi universitari a Firenze sul finire dell’800. Luogo d’incontro il cenacolo socialista di via Lungo il Mugnone: lì aveva conosciuto Ernesta Bittanti, di quattro anni più grande di Cesare, ardente socialista, una militante di cui innamorarsi e che diventerà presto la sua sposa.

Ernesta era una giovane di origini lombarde, laureata in Storia della letteratura italiana a Firenze, e che lo stesso Gaetano Salvemini, animatore del circolo, definirà «assai più colta» di lui. «Fu lei che mi fece conoscere i romanzieri russi. Fu lei che mi fece conoscere la Rivista di filosofia scientifica…», ricorderà Salvemini.

Figlia di un preside e cresciuta a Brescia, la Bittanti era appro­data a Firenze per gli studi dopo un soggiorno con la famiglia in Sardegna. Laureata nel 1896, una delle prime venti italiane a conseguire la laurea (ottenuta in Storia della letteratura con Guido Mazzoni, acca­demico della Crusca), aveva insegnato da quello stesso anno al ginnasio Galileo. A Firenze tra i socialisti si conqui­stò presto un posto di rilievo tanto da essere conside­rata «un’anziana» e un’autorità indiscussa.

Fulminante fu l’amore che scoccò tra i due.

Il fidanzamento venne annunciato il 16 ottobre 1896, Battisti aveva ventuno anni, Ernesta venticinque. Il matri­monio “socialista” fu celebrato a Palazzo Vecchio l’8 agosto 1899. Battisti lo definì, quanto a riti e proce­dure, una «burattinata municipale». I due contraenti sono – scrisse l’interessato – «militanti socialisti in un’e­poca in cui la libera unione di due spiriti era valutata nel suo più profondo significato, indipendente dalle sanzioni legali fornite dall’autorità dello Stato (per non dire poi dell’autorità religiosa, radicalmente negata)».

Due spiriti complementari, come sottolineano loro stessi.

«Io sono uno spirito irrequieto, capace più nell’a­zione che nella critica, più nell’intuizione che nell’a­nalisi» scrive Cesare a Ernesta. «Ma queste sono tutte qualità troppo unilaterali che, abbandonate al loro progressivo sviluppo, potrebbero rendermi utile ed efficacissimo nella propaganda per tre o quattro anni; riuscirebbero ad atrofizzare ogni mia iniziativa nel fu­turo…”.

La loro avventura comune si spostò di lì a poco a Trento dove col nuovo giornale fondato “Il Popolo” si sarebbero distinti per una serie di campagne sociali nonché anticlericali.

Ho scritto in “Impiccateli!” che “il Popolo non si fa mancare in quel primo decennio del nuovo secolo nessuna battaglia demo­cratica, dal suffragio universale al rilancio delle opere di Emile Zola, definito dalla stampa clericale un «ma­iale» dedito a un «verismo lurido e schifoso».

“Il giornale – riferisco dal mio libro – si batte per denunciare la penuria di al­loggi e le condizioni socio-sanitarie dei meno abbien­ti, difende l’idea di un busto allo scienziato trentino Giovanni Canestrini, un darwiniano inviso alla Cu­ria, indaga sulla miseria delle campagne.

“Importante il contributo dato da Ernesta Bittanti: a lei si deve la ricerca sugli ebrei “pazzescamente” accusati nel 1475 di aver ordito un sacrificio umano teso a irrora­re col sangue di un bambino le azzime pasquali (scate­nando un duro scontro con la destra cattolica devota a san Simonino, il nome del piccolo presunto martire). Ed è ancora Ernesta a introdurre argomenti «femministi», a battersi contro la pena di morte con articoli che alla luce del futuro martirio di Battisti assumono toni pre­veggenti («quanto Medio Evo resta da spazzar via» è la conclusione di un articolo di quella campagna…).

“La Bittanti si occupa della condizione del personale di servizio femminile, proponendo alla Camera del Lavoro di stabilire diritti e doveri della categoria e di istituire una scuola professionale che conferisca al lavoro di domestica la dignità di qualsiasi altra pro­fessione. Sua la battaglia avviata per il divorzio, tema già esistente da tempo, ma che Ernesta rilancia nella quietissima Trento in anticipo di una settantina d’an­ni sul dibattimento del tema in Italia.

È lei, infine, a scrivere il testo dell’Inno al Trentino, musicato da Guglielmo Bussoli.

Donna decisa ed energica, appena avuta notizia del terribile terremoto di Messina parte in treno per porta­re aiuto, anche se non riesce a giungere a destinazione”.

Il carattere della donna sarebbe emerso compiutamente dopo la morte del marito, nel primo dopoguerra.

“Nel luglio del 1924, nell’anniversario della morte di Battisti – ho ricordato nel mio libro -, a Firenze si manifestò al grido di «Viva Batti­sti! Viva l’Italia Libera! Viva Matteotti». Erano i giovani antifascisti del nucleo appena nato di “Italia Libera”. Vi aderivano con Salvemini i fratelli Rosselli, Piero Gobet­ti, Piero Calamandrei, Leone Ginzburg, Giannantonio Manci, un altro trentino dell’irredentismo. In più Luigi, uno det itrre figli di Cesare.

“A Trento, dopo l’uccisione di Matteotti, era stata proprio Ernesta Bittanti a redigere l’appello «Viva l’Italia», un appello antifascista per la riscossa. E il 22 giugno, mentre si svolgeva un’adunata fascista a Trento, Ernesta era corsa alla Fossa del Castello del Buonconsiglio e aveva coperto il cippo dedicato a Battisti con un velo nero. «Il nuovo Trentino» scrisse che la vedova «accasciatissima e indignatissima per l’assassinio dell’on. Matteotti s’era proposta di non permettere assolutamente – anche a costo della vita – che i fascisti si accostassero al cippo del martire».

“Nonostante un iniziale favore concesso ai primi fa­sci di combattimento, presto archiviato però di fronte agli esordi antidemocratici e violenti del movimento fascista, Ernesta Bittanti si posizionò da subito come fiera oppositrice del fascismo e tale restò per il resto della sua vita. Di lì a poco avrebbe respinto con fred­dezza la richiesta mussoliniana di dedicare il Monu­mento alla Vittoria di Bolzano a suo marito.

“A Mussolini, che all’inizio della guerra d’Etiopia chiese l’oro per la patria, Ernesta Bittanti rifiutò poi di consegnare le medaglie del marito.

“Nel 1930 la vedova Battisti si trasferì a Milano, dove ebbe frequenti contatti con gli amici antifascisti Gui­do e Rodolfo Mondolfo, Paolo Maranini, Tommaso Gallarati Scotti, Bianca Ceva, Ferruccio Parri e Aldo Spallicci. Erano gli anni della dura presa di posizione contro il regime fascista, espressa talvolta con gesti simbolici e coraggiosi, come quando, nel 1939, la Bit­tanti infranse le leggi razziali – che aveva contrastato fin dall’inizio cercando di avviare una protesta tra i professori universitari – pubblicando sul « Corriere della Sera» un vistoso necrologio per la morte dell’e­breo triestino Augusto Morpurgo.

«L’aver avvicinato il nome di Cesare Battisti alla virtù di italiani ebrei, mi procurò commoventi atte­stazioni» scrisse poi sul suo diario.

“Ernesta Bittanti lascerà Milano nel 1943, costretta a fuggire in Svizzera per l’incalzare dell’evento bellico.

“Il 24 settembre 1943 scriverà al presidente della Confederazione Elvetica ringraziandolo per l’acco­glienza, ma esprimendo grande turbamento per no­tizie, che avrebbe sperato «inconsistenti»: il rifiuto d’asilo a gruppi di ebrei.

“Il figlio Gigino non era da meno. Partigiano, perse otto dita delle mani per congelamento durante una delle numerose spedizioni per portare Oltralpe anti­fascisti in fuga dal regime. Con lui anche la sorella Livia si impegnò in attività clandestine. Luigi avrebbe combattuto in Val d’Ossola e nella primavera del ’45 prese parte all’offensiva della Valtellina. Nel maggio del ’45 rientrò con la famiglia a Trento e fu nominato sindaco della città, il primo del dopoguerra. Nel giu­gno successivo fu eletto alla Costituente. Un inciden­te ferroviario, a Sessa Aurunca, mise fine alla sua vita. Era il dicembre del 1946.

“La madre restò sempre fieramente laica: c’è chi la ricorda dritta e impassibile dietro la finestra dalle tapparelle chiuse nella casa di corso Tre Novembre a Trento, mentre la processione della Madonna Pel­legrina sostava davanti al suo portone invocando il perdono di Dio per la “senza fede”.

“La questione altoatesina fu una sua preoccupazio­ne costante nel dopoguerra: ben ventotto sono i suoi scritti editi sull’autonomia e la questione altoatesina, in aperta polemica con le posizioni di De Gasperi. Era contraria all’istituzione della regione autonoma, se­condo lei l’accordo De Gasperi-Gruber sarebbe dovu­to essere applicato solo all’Alto Adige.

“Ernesta Bittanti morì undici anni dopo nella sua Tren­to, il 5 ottobre 1957, disponendo per sé funerali laici”.

 

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