I vestiti e le scarpe pesano, ti trascinano giù. Cerchi di sfilarli, ma non è facile. Ci provi, ma vai giù. Allora cerchi di restare con la testa fuori dall’acqua. Con gli occhi sgranati, l’affanno e il cuore che pompa nel petto per il terrore e la fatica ti guardi attorno e vedi solo acqua. E cielo. Ovunque. Per chilometri, fino all’orizzonte.
Un deserto infinito di acqua e cielo. E all’acqua non puoi aggrapparti. A niente puoi aggrapparti perché non c’è niente. Nessuno scoglio, nessun appiglio. Solo acqua ovunque ti volti, schizzi, schiuma e urla di quelli che sono con te, in acqua con te. Impotente li vedi dimenarsi, immergersi, sparire. Riaffiorare. Sparire di nuovo. Sanno che stanno morendo e non vogliono. E tu sai che stai per morire e non vuoi.
Guardi giù. E ti accorgi che il mare non è azzurro, ma è nero. Le tue gambe si dimenano su un abisso nero abitato da chissà quali creature che non aspettano che te. Senti quel buio prenderti le gambe pesanti e portarti giù. Ti opponi, le muovi più velocemente che puoi, stancandoti però sempre di più.
Vedi madri e padri tenere i loro bambini fuori dall’acqua. Ma non sanno nuotare. Leggi nei loro occhi “aiutami”, vedi sparire sotto il pelo dell’acqua prima loro, poi i piccoli, non tornare più su.
I piedi non toccano nulla, girano a vuoto. E ti stai stancando, non ce la fai più. Hai l’affanno, il cuore in gola. Non è come a terra. Lì se corri e sei sfinito ti fermi, ti siedi. Qui ti fermi e vai giù. E tutti gli anni che avevi da vivere, tutto quello che avevi da fare, che sognavi di fare, non sarà mai più.
Lo sai. Sta succedendo. Manca poco. Fra poco vai giù, non respirerai mai più, non vedrai mai più, non sentirai mai più, non mangerai e non riderai mai più. E non puoi fare nulla.
Attorno a te le urla sono sempre meno. Non vedi più la ragazza con le treccine con cui avevi atteso sulla spiaggia l’imbarco. Nemmeno il ragazzo a cui hanno dato la bussola, il timone e col fucile gli hanno detto “Parti”. Non vedi più il piccolo Samuel e suo padre.
C’è una nave all’orizzonte. No. E’ solo un’onda.
Guardi giù ed è buio. Le tue gambe sono sempre più stanche e pesanti. Non ce la fai più, sei sfinito, vuoi riposarti. Le gambe hanno mollato. Da sole. Vai giù. Aspettate, altri cinque secondi, fatemi vivere altri cinque secondi. Ma hanno ceduto. E vai giù.
Sei completamente immerso. I suoni sono ovattati. Pensi a tua madre che aspetta la tua chiamata una volta in Italia. La immagini in attesa su una sedia. Il poco che le è rimasto dopo aver pagato il riscatto perché la smettessero di torturarti, di farti urlare.
Mentre vai giù non riesci a trattenere il poco fiato che hai preso perché sei sfinito. Allora butti subito fuori l’aria, ma è un errore. Istintivamente torni a respirare ma mandi nei polmoni acqua. È una sensazione orribile, spaventosa. Soffochi. Ma deve ancora arrivare il dolore più atroce insieme al terrore e all’annegamento.
A due metri di profondità sei ancora vivo ma senti una fitta alle orecchie. Il dolore cresce quando sei a 3 metri ed è già lancinante ad appena sei a 5 metri. Stai andando verso quel buio profondo che ti terrorizza. La pressione ti sta per sfondare i timpani perché non sai compensare, ti sembra che la testa stia per implodere. Più scendi e più il dolore aumenta. Fa impazzire.
E poi qualche altro metro più giù succede, i timpani si lacerano e il dolore è atroce. E quel dolore atroce è l’ultima cosa che senti mentre il buio ti avvolge. Tutti muoiono e scendono con te, e ora non ci sono più urla e schizzi e schiuma, ma silenzio.
Dall’altra parte del mare le navi restano in porto. Salvare chi annega è diventato in un crimine. Ci sono indagini, sequestri, condanne. Ogni vita salvata ora costa 5.500 euro. Più o meno il prezzo pagato agli scafisti da te e poi ai sequestratori dalla tua famiglia. Ma qui è tutto legale. E’ il mondo civilizzato.
Fra un paio di giorni sarai un titolo in tv: “Oggi altri 100 dispersi in mare. Ma ora passiamo allo sport”.