Di Maria Sole Russo
C’eravamo tanto amati – il finale tragico di un’idilliaca storia d’amore. E’ del 10 Dicembre la notizia che quattro parlamentari hanno deciso di abbandonare il Movimento 5 Stelle. A questi ‘ribelli’ vanno aggiunti altri quattro europarlamentari che appena una settimana prima avevano manifestato la loro decisione di unirsi al gruppo dei Verdi.
“Nel Movimento c’è un clima tossico” – è l’accusa che viene rivolta ai vertici. Proprio come nei migliori romanzi rosa, ci si illude che il rapporto sentimentale duri per sempre. Ci si promette amore eterno nella speranza che l’altra persona non cambi. Eppure, il Movimento negli ultimi anni è cambiato e non poco, fino a diventare un partner ‘tossico’.
Il Movimento ha raggiunto il suo acme alle elezioni politiche del Marzo 2018 quando riuscì nell’intento di diventare il gruppo più numeroso in Parlamento con 226 deputati e 112 senatori. Famosi – e a tratti utopici – i loro slogan elettorali che permisero di raggiungere tale successo. Cosa è successo allora al Movimento negli ultimi mesi? Perché tale fuga di parlamentari ed europarlamentari da una nave che sembra inevitabilmente ed irrimediabilmente affondare? Per spiegare il declino di quella corrente ‘anti-casta’ e ‘anti-privilegi’ vale la pena ricordare tutte le promesse non mantenute, le bugie e i tradimenti di questo fidanzato infedele.
Dopo aver più volte denunciato le nefandezze di un sistema corrotto, quelle stesse figure di vertice hanno tratto vantaggio dallo stesso sistema. Il cerchio magico di amicizie di Luigi Di Maio, un gruppetto di ex compagni di liceo, di Università o anche solo di merende – conosciuti come “Pomigliano Boys” – sono stati assunti a vario titolo e costano solo alla Farnesina più di settecentomila euro l’anno. Ebbene sì, fra i collaboratori diretti del Ministro assunti come “personale estraneo alla Pubblica Amministrazione con contratto a tempo determinato” figurano amici di vecchia data. Tale staff costa il doppio di quello dei suoi predecessori – alquanto ironico per chi ha fatto della lotta agli sprechi e alla corruzione un baluardo della propria politica.
Per non parlare delle giravolte e doppi salti carpiati – da far invidia a Simone Biles – in materia di TAV, TAP e ILVA.
L’opposizione al Treno ad Alta Velocità (TAV) Torino-Lione è stato uno dei cavalli di battaglia del Movimento, per cui Beppe Grillo è stato condannato a 4 mesi dopo aver sfondato una recinzione in Valsusa. Dura è stata la reazione fra attivisti e militanti (specialmente in Piemonte) quando l’esecutivo di cui il M5S è parte ha dato il consenso all’opera.
Cosa dire invece del TAP (Trans-Adriatic Pipeline)? Il Gasdotto Trans-Adriatico dovrebbe trasportare in Europa il gas estratto in Azerbaijan, passando per l’Albania ed attraversando il Mar Adriatico – costituendo un’alternativa all’attuale dominio russo. Per lungo tempo il M5S ha protestato contro la costruzione del gasdotto in Salento. Anche e soprattutto facendosi promotore della battaglia No-TAP, il Movimento ha superato il 40% dei consensi in provincia di Lecce. “Col M5S al governo blocchiamo questo progetto in 15 giorni” – prometteva Alessandro Di Battista. Eppure, come un fulmine – non proprio a ciel sereno – la decisione del governo di procedere con i lavori. “Abbiamo fatto tutto quello che potevamo ma fermare l’opera comporterebbe costi insostenibili” – ha sentenziato lapidariamente Luigi Di Maio.
Sempre in Puglia i pentastellati sono stati premiati alle elezioni del 2018 per un’altra grande battaglia da portare avanti: “Basta ILVA”. Di Maio promise una riconversione o la chiusura dell’acciaieria. Neanche a dirlo, oggi l’ILVA è ancora aperta.
Un potpourri di promesse non mantenute e problematiche non risolte con, inter alia, la questione della revoca delle concessioni autostradali, la legge sul conflitto di interessi, la riforma fiscale, la riduzione della durata dei processi, la banca pubblica per gli investimenti, una chiara posizione sull’immigrazione e l’abolizione della povertà.
Eccola, infine, la goccia che ha fatto traboccare il vaso, l’ultima di una lunga lista di bandiere ammainate: il voto sul Meccanismo Europeo di Stabilità (MES). Il voto sul MES ha messo in rilievo il momento di crisi più profondo del M5S ed il distacco con la base elettorale di militanti ed attivisti. “Tradimento” è il capo d’accusa.
Il M5S ha più volte affermato che il MES fosse l’emblema dell’austerity imposta agli Stati più deboli dai ‘nemici’ della sovranità nazionale – Commissione europea, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale. In tutti i programmi elettorali si prometteva “lo smantellamento del MES e della cosiddetta Troika” per evitare che, a causa delle condizionalità imposte dall’alto, l’Italia diventasse come la Grecia.
Triplo salto mortale – mortale per davvero – in questo caso per Di Maio che a seguito del voto al MES ha timidamente commentato “prevale il senso di responsabilità”.
E così, causa dissidi interni, nel corso della XVIII legislatura ben 47 parlamentari hanno lasciato il Movimento. Ugualmente al Parlamento Europeo, il M5S arranca e respira a fatica. Eleonora Evi, Rosa D’Amato, Ignazio Corrao e Piernicola Pedicini hanno lasciato il Movimento a Dicembre per entrare nel gruppo dei Verdi. “Lasciamo il Movimento per poter continuare a portare avanti il programma elettorale più volte disatteso dall’ambiguo atteggiamento imposto nell’ultimo anno dal M5S stesso” – hanno aspramente motivato la loro decisione. Le tensioni sono sorte dopo che i quattro hanno votato in contrasto con l’indicazione del partito in materia di politica agricola comune.
Sul fronte italiano, invece, è duro l’attacco dell’onorevole Mara Lapia che ha affermato
“con l’approvazione della risoluzione che autorizza il governo alla firma della riforma del MES sono stati traditi i valori fondamentali di M5S. (…)Un Movimento che ha posto spesso al centro l’interesse di pochi a discapito della volontà di tutti gli altri. Quelli, per intenderci, che siedono più al di sopra di tutti.”
Attacchi ai vertici del M5S provengono anche dall’onorevole Carlo Ugo De Girolamo che denuncia l’impossibilità di partecipare attivamente alla definizione della linea politica del M5S:
“qualcuno ha deciso per tutti che certe battaglie potevano pure essere sacrificate in nome di chissà quale accordo o di quale promessa”.
Che la diaspora dal Movimento sia un invito per la classe dirigente a farsi un esame di coscienza sulle battaglie da portare a termine e le posizioni da prendere. In questo caso va squarciato il velo di Maya per constatare la realtà dei fatti: il Movimento respira a fatica.
Caro Movimento, che ne sarà di te? Io, francamente, me ne infischio.