Cavalcanti motteggiatore: un illustre esempio di arte dell’insulto nel Decameron

Cavalcanti motteggiatore

"Scena di narrazione del Decameron", Salvatore Postiglione: olio su tela, 1906 circa.

Per tutti quelli che, almeno una volta, avrebbero voluto avere la risposta pronta la sesta novella della nona giornata del Decameron può essere d’ispirazione. Essa presenta un inedito Guido Cavalcanti motteggiatore e artista della fuga. L’ennesima prova che le parole possono servire molto più della violenza a rimettere gli importuni al proprio posto!

Quando è quella di un uomo colto, la lingua – come del resto la penna – può ferire ben più della spada. Un meraviglioso esempio di questo principio si trova nella nona novella della sesta giornata del Decameron di Boccaccio. Narrata da Elissa, regina e “moderatrice” dei racconti per quel giorno, essa offre un gustosissimo ritratto del poeta Guido Cavalcanti motteggiatore.




Le vittime di Cavalcanti motteggiatore: Betto Brunelleschi e la sua brigata

Ambientata nella Firenze della seconda metà del 1200, la novella di Cavalcanti motteggiatore ha per protagonisti personaggi illustri. Lo stesso Cavalcanti, anzitutto. Presentato, però, non in veste di poeta, bensì di studioso di logica e filosofia della natura, uomo dottissimo e di famiglia molto facoltosa. In secondo luogo, Betto Brunelleschi: cavaliere guelfo nero di antichissima casata, temuto e rispettato capo di una brigata di nobili concittadini.

Come spiega la narratrice, quella delle nobili brigate era un’usanza tipicamente fiorentina andata perduta all’epoca – 1348, anno della peste – in cui il Decameron è ambientato. Si trattava dell’associazione, in ogni contrada, dei membri più ricchi e nobili, tenuti a offrirsi reciprocamente banchetti. E a trascorrere il tempo insieme virtuosamente e in allegria. Costoro, inoltre, potevano ammettere al proprio consesso cittadini non nobili ma meritevoli, oppure forestieri illustri, in rappresentanza della città.

La brigata di Brunelleschi era tra le più attive e nobili in città. Un uomo della fama e della cultura di Cavalcanti sarebbe stato un fiore all’occhiello notevolissimo per l’intera compagnia. Senza contare che, grazie al suo ragguardevole patrimonio, per il poeta non sarebbe stato difficile contribuire alle spese per l’organizzazione di un periodico banchetto. Senonché da quell’orecchio Cavalcanti, più interessato allo studio che alle questioni cavalleresche e mondane, proprio non ci sentiva. Così, da qualche tempo, quando la brigata lo incontrava per Firenze non mancava di importunarlo.

Un detto pungente, una rapida fuga: Cavalcanti motteggiatore…

Questi gli antefatti della novella di Cavalcanti motteggiatore. Ma che cosa accade nella vicenda narrata da Elissa?

Un giorno, immerso nei suoi pensieri, Guido Cavalcanti era intento a passeggiare per il centro di Firenze. Meditando, in particolare, era venuto a ritrovarsi davanti al battistero di San Giovanni. Battistero che, all’epoca, aveva intorno intorno una spianata erbosa sulla quale erano posti ampi sarcofagi di marmo che ospitavano le spoglie dei fiorentini più illustri. Vedendolo da lontano, la brigata di Brunelleschi, che arrivava in quel momento a cavallo, decise di andare a infastidirlo.

Detto fatto: spronati i cavalli, ben presto il gruppo di notabili fu intorno a Cavalcanti e, circondatolo, non lo lasciava andar via. Deridendo il suo interesse per lo studio e assecondando la voce di popolo che lo voleva convinto epicureo, un cavaliere fu particolarmente impertinente. Infatti, lo apostrofò dicendo: «Guido, tu ti dai tanta importanza da rifiutare di far parte della nostra brigata. Eppure, una volta che avrai dimostrato che Dio non esiste, che avrai mai fatto di importante nella vita?».

Con tutta calma, Cavalcanti li guardò uno a uno e rispose: «Signori, qui ci troviamo a casa vostra: potete dirmi quello che vi pare». Poi, appoggiando la mano a uno dei sarcofagi, spiccò un balzo e lo superò, smarcandosi dal loro accerchiamento. E, voltate loro le spalle, se ne andò tranquillamente, non curandosi delle loro facce perplesse.

… E Brunelleschi esegeta

Cavalcanti li aveva piantati in asso da un pezzo, ma ancora i cavalieri si guardavano senza raccapezzarsi. Alla fine uno si azzardò a dar voce al pensiero di quasi tutti: «Poveretto: ha studiato così tanto che s’è rincretinito!». E già stavano scrosciando le prime risate quando, serissimo, Betto Brunelleschi alzò imperiosamente la mano e disse: «Macché, Cavalcanti è lucidissimo. I cretini siamo noi». E, poiché i suoi compagni ancora non capivano, tra lo spazientito, il piccato e il divertito Brunelleschi si diede a spiegare la trovata del Cavalcanti motteggiatore.

Dovevano guardarsi intorno, sentenziò il capo-brigata. Si trovavano, sì, davanti al battistero, ma nel bel mezzo dello spazio ove erano collocati i sarcofagi dei morti. Erano, per essere precisi, in un cimitero. Dire che quella era casa loro, proseguì Brunelleschi, era come dire che loro, essendo così ignoranti com’erano, erano morti. Né sarebbero mai stati vivi: non, quantomeno, come può esserlo un uomo che coltivi il sapere. Con quella battuta, concluse, Cavalcanti era riuscito a dir loro una gran villania, facendoli fessi senza però ledere il loro onore di cavalieri. Ossia, senza passare dalla parte del torto e rischiare, peraltro, di attirarsi una vendetta. Così, da quel momento in poi, chiosa Elissa, nacque la tradizione che voleva Cavalcanti motteggiatore temibile e Betto Brunelleschi cavaliere acuto e nobile anche nell’animo.

La novella di Cavalcanti: una lezione per il presente

Oggi, è evidente, è finita da un pezzo l’epoca della cavalleria. E sembra finita anche quella urbanità che fa dell’uso delle parole uno strumento sottilissimo per la costante negoziazione (non manipolativa) del rapporto con gli altri. Eppure, se la novella di Cavalcanti motteggiatore riesce ancora divertendo ad affascinare, oltre al genio insuperabile di Boccaccio, è anche perché veicola un aspetto interessante. Cioè il fatto che le parole, tanto nel pronunciarle quanto nell’interpretarle, si fanno espressione manifesta della cultura e del carattere di chi le pronuncia.

Cavalcanti, anziché prendersi gioco dell’intelligenza (scarsina) di chi aveva davanti, avrebbe potuto tranquillamente insultare le loro madri e risalire tutto l’albero genealogico. Brunelleschi, dal canto suo, avrebbe potuto passare il poeta a fil di spada, o far sì che la brigata desse a quell’impudente una lezione. Invece, il duello è giocato sul filo del linguaggio: le regole dello scambio non sono scritte, eppure restano inviolabili. Cavalcanti ne esce vincitore e tale rimane, mai più infastidito dalla brigata, della quale ha guadagnato il rispetto. Brunelleschi, sconfitto, riconosce il merito dell’avversario e ottiene a sua volta credito per questo riconoscimento, oltre che per la sua perspicacia. In un’epoca di parole grosse, polemiche e scimmie urlatrici in diretta, sarebbe auspicabile recuperare un codice d’onore nella villania, padroneggiando l’insulto come estrema arte sottile.
Auspicabile, forse: se di fatto possibile, però, resta da vedere.

Valeria Meazza

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