Sophie è una cappellaia la cui routine è all work and no play. Anche troppo matura per la sua età, la ragazza non ha conosciuto l’amore né l’avventura. Il caso la fa incontrare con il seducente, principesco Howl, mercenario controvoglia, libertario nell’anima, mago di grandissimo potere che è ricercato dallo Stato e dalla Strega delle Lande, alla ricerca del suo cuore.
Quest’ultima getta su Sophie una maledizione che fa emergere all’esterno la vecchiaia del suo animo. Uscita di casa con le sembianze imposte da quella megera disgustosa, la ragazza incrocia nel suo viaggio il castello di Howl, abitazione-macchina messa in moto dal demone del fuoco Calcifer, cui il mago è legato da un patto siglato molti anni prima.
Unitasi agli abitanti del castello, tra cui trova anche l’assistente di Howl, il piccolo Markl, Sophie vede il suo mondo distrutto lentamente dalla guerra, che per Miyazaki è espressione del non-senso, della barbarie, dell’orrore.
Per il regista giapponese, premio Oscar per La città incantata, il romanzo omonimo di Diana Wynne Jones è solo un pretesto per esplorare il mondo della magia e degli affetti; per inviare un messaggio contro le imprese belliche, qui messe in atto da maghi mutaforma, assai vicini alle creature abortite del Trittico di studi per figure ai piedi della Croce (1944) di Bacon; per manifestare ancora la fascinazione per l’Europa e l’estetica mitteleuropea già comparsa ai tempi del suo esordio (Lupin III – Il castello di Cagliostro).
Il castello errante di Howl non è inferiore al film per cui Miyazaki si guadagnò l’Oscar: in una cornice estatica di massimo splendore, il regista ha fuso il ricordo del mito di Amore e Psiche con la storia di una crescita, di una passione, di un desiderio (per la libertà), raccontata come raggiungimento di maturità e bellezza insieme.
Sophie, da vecchia dentro, diventa vecchia fuori perdendo in aspetto ciò che recupera in energia e forza. La sua forma ultima, con i “capelli di color delle stelle”, è un bello interiore tradito, che solo le prove della vita possono portare in superficie.
L’archetipo letterario dell’amante-demone, già presente ne La città incantata, ritorna con Howl in forma smagliante: una figura simile potrà ricordare agli amanti della letteratura inglese i versi di Coleridge e del suo Kubla Khan.
Questi personaggi, di certo memorabili, vivono insieme in un mondo dove i rapporti procedono per simmetrie geometriche che sono tracciati psicologici di evoluzione ed involuzione, con una costruzione serrata dei rimandi e dei paradossi tra l’uno e l’altro.
Il finale da fiaba, trionfo della pace, vede la vittoria della protagonista e del suo sogno d’amore, in una visione di libertà che Miyazaki immagina circonfuso di affetti, quasi la strana comunità del castello fosse una famiglia, un punto di arrivo cui aspirare, cullato dalle musiche di Joe Hisaishi.
Di certo, ad un livello basilare, Il castello errante di Howl è già una vetta che porta i cinefili a stancarsi di vedere il cinema per arrivare a fare del cinema.
Antonio Canzoniere