Sfido chiunque sia cresciuto tra gli anni ’80 e i ’90 a non aver mai desiderato, sia pure per una volta, di andare in Giappone. Per me, cresciuto a spadate da Lady Oscar e nutrito dalle polpette di Marrabbio, il Giappone è sempre stato un desiderio inespresso e accarezzato migliaia di volte. Poi, una sera di febbraio, la domanda inaspettata: «Vogliamo andare in Giappone?». Inutile scrivere la risposta.
Prenotato il volo (Lamezia Terme – Roma – Tokyo), si inizia a preparare l’itinerario, a scegliere dove andare, cosa vedere. Dove andiamo? Tokyo, sicuro. E poi? Kyoto, Hiroshima (vai in Giappone e non passi da Hiroshima?!), Kanazawa (Kanazawa? E che è?), Takayama (wat?) e poi di nuovo Tokyo. E se passassimo una notte a Koyasan, in un monastero buddista? Ovvio che si. Decisi i posti, si passa alle prenotazioni. Alberghi, appartamenti, monastero, pass ferroviario. Tutto pronto, inizia il conto alla rovescia.
Partiamo finalmente. Il viaggio è interminabile, da Roma a Tokyo sono circa dodici ore di volo; considerato il fuso orario, partendo alle 15:30, l’atterraggio a Tokyo sarebbe stato alle 10:30 del mattino seguente. Tutto procede nella norma, l’aereo decolla in leggero ritardo. Il pasto è orripilante, gli assistenti di volo dei tamarri, non si può fumare in aereo, ma questi sono solo dettagli: bisogna rimanere concentrati sulla meta. Una volta atterrati, entriamo nell’area del controllo passaporti. Ad accoglierci una gigantografia che recita “Welcome to Japan”, dove scatta immediatamente il selfie d’ordinanza con tutta la famiglia. Fatta la foto, ci raggiunge un poliziotto che, con un inglese improbabile, ci costringe a cancellare la foto perché «L’area del controllo passaporti non può essere fotografata». Mai ‘na gioia. Usciti dall’aeroporto, il primo impulso è quello di accendersi una sigaretta: non si può, è vietato fumare all’aperto in Giappone (wat?) se non nelle apposite aree. Queste aree sono in pratica delle cabine dotate di posacenere e aspiratori per il fumo, e fanno sentire chi è dentro come un pesce rosso (da qui il soprannome “l’acquario”).
Prendiamo il trenino che collega l’aeroporto alla città. La prima cosa che ci colpisce, avvicinandoci a Tokyo, sono i fiumi. I fiumi, per chi è abituato all’Europa, sono sempre di colore verdastro, melmosi, sporchi. In Giappone invece, anche quelli che scorrono in mezzo alle città, sono limpidi e cristallini come un laghetto alpino. La foto è d’obbligo. Giunti a Tokyo, si tratta di arrivare al nostro albergo, nel quartiere di Kabukicho. Non sapevamo con sicurezza cosa aspettarci, essendo il quartiere a luci rosse della città. In realtà, è estremamente tranquillo e sicuro. Anche i vari blog di viaggio consultati prima della partenza erano stati molto rassicuranti al riguardo. In effetti, nessuno ha cercato, in tre giorni, di trascinarci con la forza in uno strip bar o “gentlemen’s club” di sorta, e le stesse ragazze alla porta sono vestite in maniera piuttosto casta (alcune anche in tuta). Se non si conosce il giapponese, insomma, le insegne sono identiche a tutte le altre che si trovano in giro per Tokyo: coloratissime, estreme, a tema manga, kitsch. Per un amante del kitsch come me è stato come passeggiare in un paradiso. La sera, dopo aver riposato un po’, usciamo: la destinazione è il quartiere di Asakusa, dove si tiene una festa religiosa con bancarelle annesse. Arriviamo in tempo per vedere la fine della processione, ma non importa. Il vero obiettivo dell’uscita era andare alla bancarella dove si catturano i pesci rossi con il retino di carta: gli unici due adulti in mezzo ad una torma di ragazzini, esclusi i genitori dei bimbi, eravamo io e mio fratello, guardati con curiosità e sicuramente presi in giro a nostra insaputa. Bottino finale della pesca: due pesci rossi catturati (e ributtati nella vasca), quattro retini rotti e goldfish sfuggito causa rottura del retino, ma vuoi mettere la felicità di averlo fatto?
Dopo aver gironzolato un po’ tra le bancarelle, vista l’ora, decidiamo di tornare in albergo. Andando verso la metropolitana, veniamo fermati da una coppia di giapponesi: vogliono assolutamente farsi una foto con gli italiani. La donna vive in Italia da alcuni mesi, a Salerno (SALERNO?) per imparare l’italiano, e ama la ‘nduja (really?). Il marito ci chiede il nostro itinerario, dove alloggiamo e se ci sta piacendo il Giappone. Alla parola Kabukicho sfodera un sorriso a trentadue denti: intenditore, senza dubbio. Dopo esserci salutati scendiamo nella metropolitana, sorprendentemente poco affollata e rientriamo alla base. Gli alberghi giapponesi hanno un unico difetto: le stanze e i bagni sono piuttosto piccoli, un occidentale ci entra al millimetro.
Il giorno dopo è tempo di cominciare ad esplorare la capitale. Prima fermata, il palazzo imperiale: essendo abitato dall’imperatore non è aperto al pubblico, però in teoria se ne possono visitare i giardini. Questo in teoria, perché in pratica noi siamo capitati nel giorno di chiusura settimanale, quindi ci siamo dovuti accontentare di vederli dall’esterno. Mai ‘na gioia bis. Visto l’insuccesso, decidiamo di andare nel quartiere delle vetrine di lusso, Ginza, tanto per fare un giro. Pessima idea: Ginza non vale il viaggio in metropolitana per arrivarci. I grandi marchi occidentali e asiatici (sconosciuti in Occidente) non mancano, ma in generale il quartiere – grigio e anonimo – se non si vuole acquistare non vale la visita. Così ci spostiamo a Shibuya. Fuori dalla stazione troviamo la statua di Hachiko, il cane che andò per nove anni ad aspettare il ritorno del suo padrone, morto improvvisamente, alla stazione ferroviaria fino al giorno della sua morte. Una storia triste, ma piena d’amore, che è giusto ricordare.
Di fronte la stazione si trova il famoso incrocio di Shibuya, conosciuto per essere il più affollato del mondo. Confluenza di quattro grandi arterie, ogni volta che scatta il semaforo è attraversato da migliaia di persone. Oltre l’incrocio, le vie del quartiere sono affollate soprattutto da ragazzi: Shibuya è ricco infatti di locali di ogni genere, da quelli per gli amanti del karaoke (palazzi di sei piani completamente dedicati a questo) ai ristoranti, alle sale giochi (vere sale giochi, non sale slot) dove impazza la gru per afferrare i pupazzetti. Decine di macchine per agguantare pupazzetti. Ma la vera curiosità sono le persone: gli uomini (indifferentemente dall’età o dalla posizione sociale) portano tutti una borsa da donna con i manici, rigorosamente sul braccio, oltre alla ventiquattrore. Le donne invece sono piuttosto diverse dai canoni occidentali: viso piuttosto carino, senza forme, gambe storte (“Ci passerebbe un cane con una scopa in bocca”, cit.) e scarpe col tacco di un numero più grande rispetto alle dimensioni del piede (probabilmente dovuto al fatto che siano, tendenzialmente, piuttosto basse e non si trovino scarpe della misura adatta).
Il giorno dopo decidiamo di andare a Nikko, cittadina sede di un famoso monastero buddista. Il viaggio è relativamente breve (circa un’oretta e mezza), ma vale ampiamente la pena. Visitare il monastero di Nikko equivale a fare un salto nel Giappone più autentico, quello rurale, dove la modernità è arrivata con il contagocce. Quel giorno pioveva e vi era un po’ di nebbiolina, l’atmosfera era perfetta. Il monastero si inerpica su una collina, ed è composto da numerosi edifici costruiti lungo i fianchi della stessa. Un tortuoso e ripido sentiero di scalini e ponti permette di arrivare fino in cima.
Fine prima puntata
Lorenzo Spizzirri