In fuga dalla zuppa di cipolle del ryokan, lasciamo Takayama diretti nuovamente a Tokyo. Dopo un viaggio di quasi cinque ore, tra rapido e shinkansen, siamo di nuovo nella capitale. Stavolta l’albergo è più distante, bisogna arrivare fino al quartiere di Asakusa (quello del festival con la bancarella del goldfish, qui), ma ne vale decisamente la pena. La stanza è bellissima, con vista panoramica sulla città. L’unico problema è sempre lo spazio, in bagno le mani entrano a malapena nel lavandino!
Il pomeriggio è dedicato all’uscita: c’è un mondo da continuare ad esplorare, e chi dorme non piglia pesci. La tappa del primo giorno è Akihabara, nota anche come electric town per via dei numerosi negozi che vendono ogni genere di cazzatella tecnologica e non (e quando si dice ogni genere si intende davvero ogni genere, compreso l’aggeggio per fare ginnastica facciale). Ma Akihabara non è solo questo. Akihabara è anche il quartiere nerd per eccellenza di Tokyo. In quale altra città della terra si possono trovare tre palazzi della SEGA (e se non capite al primo colpo cosa è, andate mezzora nell’angolo della vergogna, Raus!) con game club e sala giochi vintage? Un colpo al cuore. Oppure,è molto più facile qui che altrove trovare ragazzi e ragazze cosplayer in gruppo che vengono fermati da decine di persone per fare una foto. Akihabara è anche la casa delle Akb48,il gruppo pop più numeroso del mondo, composto da ben 92 ragazze. La punta di diamante del fenomeno idol giapponese, eredità dei ruggenti anni ‘80.
Dopo aver gironzolato un po’ troviamo finalmente l’obiettivo della nostra venuta ad Akihabara: Mandarake, ovvero otto piani di fumetti, costumi, action figures, giocattoli e tutto il cucuzzaro. Durante le due ore trascorse all’interno il portafoglio è stato in serio pericolo, vista la quantità di cose interessanti e i prezzi (la cosa più economica partiva da un rene), però ne è valsa senza dubbio la pena. La guida, inoltre, suggeriva la visita ad uno dei numerosi maid-bar del quartiere: un maid-bar, in pratica, è un bar dove si viene serviti da ragazze vestite come cameriere sexy. Stupidi anglosassoni ed il loro retaggio dell’impero, non sono normali: testualmente “molti uomini potrebbero trovare piacevole l’esperienza di farsi servire da queste ragazze”. Vabbè, come dice vussurìa. Accantonata l’idea del maid-bar cerchiamo un posto dove poter cenare, andando a finire in un postaccio uscito dritto dritto da un film di Van Damme. Consiglio per chi passa da lì: evitate i ristoranti intorno alla stazione della Japan Railways di Akihabara.
Il giorno dopo ritorniamo invece a Shibuya: la tentazione di rivedere gli uomini con la borsetta è troppo forte e non resistiamo. La folla è immensa, e per fortuna le nostre aspettative non rimangono deluse. Puntuali come uno shinkansen, appaiono. Ventiquattrore in una mano, borsa media con manici nell’altra: la gara a chi ce l’ha più bella è vinta da quello in giacca e cravatta con borsa simil Alviero Martini, dileguatosi nella folla di Tokyo prima di riuscire ad immortalarlo.
Il terzo giorno invece grande spettacolo: si va a vedere un incontro di sumo! Il torneo a cui assistiamo è organizzato in occasione del ritiro di un lottatore molto famoso, per cui dopo ci sarà tutta la cerimonia dell’addio. Prima che inizino gli incontri, le due squadre di lottatori salgono sul ring e cantano; la voce che esce è delicata ed armoniosa, specie vedendo da chi esce è una cosa inaspettata. Successivamente sfilano gli stendardi delle scuole di sumo, e dopo iniziano i match. La mia aspettativa riguardo il sumo era un incontro in cui i due si prendessero a colpi di pancia, in modo da buttare l’avversario fuori dal ring. In realtà si tratta di passate di mazze di alto livello, dove volano schiaffoni da ogni parte. Tra le regole, infatti, vi è quella che proibisce di colpire a mano chiusa e quella per cui non si può togliere il perizoma all’avversario (deo gratias).
Dopo diversi incontri, arriva il momento della cerimonia del ritiro. Il lottatore, dopo essersi messo il kimono ed essere stato pettinato, viene fatto sedere al centro del ring: le persone sedute immediatamente intorno al ring (selezionate non si sa come) salgono una per volta, tagliando un millimetro di capelli dell’acconciatura. La cosa va parecchio per le lunghe, visto che dopo un’ora ancora la coda da tagliare sembra immutata. Usciamo così dall’arena, decidendo di fare un ultimo giro a Tokyo prima della partenza dell’indomani. Ci immergiamo nei quartieri pieni di folla, cercando di catturare quanti più istanti possibili di questa terra straordinaria, tanto più avanti di noi in molte cose quanto piena di contraddizioni in altre.
Il giorno dopo, felici e tristi al tempo stesso, ci imbarchiamo sull’aereo di ritorno. Che stiamo decollando da Tokyo si vede anche dal fatto che l’aereo parta in perfetto orario. Purtroppo il personale di volo, se possibile, è ancora più grezzo di quello dell’andata (ma chi li fa i colloqui?), facendo rimpiangere ogni minuto la gentilezza giapponese. Atterriamo intorno alle 20 a Roma, e a notte fonda arriviamo a Lamezia. Il viaggio è definitivamente concluso.
L’unico rimpianto del Giappone è stato l’aver scoperto solo al mio rientro in Italia che a Tokyo vi è una statua di Holly e Benji. Ma, dopotutto, questo potrebbe essere un motivo più che valido per tornarci. Presto.
Lorenzo Spizzirri