Carolina Invernizio: la signora in giallo, rosa e nero

Fu una scrittrice prolifica e popolarissima. Oggi, le sue opere sono quasi introvabili. Ma Carolina Invernizio (Voghera, 1851 – Cuneo, 1916) è ancora una vera signora in giallo, rosa e nero. La sua vena narrativa non ha alcunché da invidiare alle odierne fiction. Quel che ci voleva per movimentare il grigiore quotidiano dei suoi lettori – e delle sue lettrici, soprattutto. Il Romanticismo era morto; il romanzo d’appendice ne era l’ammaliante fantasma.

Fonte: anobii.com

I suoi personaggi non brillano per complessità. Sono angelici o perversi, e basta. Almeno, per quanto riguarda le donne. I personaggi maschili mostrano sempre qualche lato debole o moralmente ambiguo. Forse, l’arte di creare caratteri a tutto tondo appartiene solo agli autori che hanno accettato fino in fondo se stessi e il mondo. Per la Invernizio e per il suo pubblico, invece, c’erano il normale e l’anormale, il buono e l’inaccettabile. C’era un mondo di moralità cristiana, decoro, salute psichica e ordine domestico. E c’era quello misero, criminale, deforme, esotico, psicopatico. Sarà un caso se il romanzo inverniziano era contemporaneo di Lombroso e della criminologia su base fisiognomica?




 

“Si potrebbe insomma sostenere che, nella narrativa popolare di fine secolo, si materializzano con straordinaria evidenza e potenza visionaria le paure di una società non tanto tranquilla e non tanto sicura di sé; e  anzi scossa da fermenti sociali mai visti prima, da avventure coloniali (che per la prima volta ponevano in contatto con il nemico esotico), da omicidi politici, da venti di guerra. […] nuovi soggetti sociali emergono dal fondo delle campagne e da continenti alieni – e anche dalle non più rassicuranti mura di casa, o dai talami una volta ben più accoglienti.” (Roberto Fedi, Introduzione a: Carolina Invernizio, La vendetta di una pazza, edizione Mursia del 1990, p. 7).

 

E questo è l’immaginario della Invernizio. Ciò è evidente in uno qualunque dei titoli della sua produzione sterminata (centotrenta romanzi in quarant’anni!). Prendiamo, ad esempio, il più celebre: Il bacio d’una morta (1886). Esso narra la storia dell’angelica Clara Vergani in Rambaldi: sposata per amore col conte Guido, viene tradita con l’affascinante ed esotica ballerina Nara. Quest’ultima spinge Guido a dilapidare il patrimonio della moglie e ad avvelenarla. Ma il veleno, per errore, è soltanto un narcotico. Clara viene salvata in extremis, sul punto di essere seppellita viva. A rivelarla come non-morta, è proprio un bacio che il fratello di lei strappa al presunto cadavere. L’ambientazione è realistica. Ma l’assolutezza di trama e personaggi li rende metafisici. Paure e pregiudizi dell’Italia fineottocentesca si trasformano nella lotta fra Bene e Male.

 

Il seguito, La vendetta di una pazza (1895), estremizza gli aspetti macabri e orrorosi insiti nel precedente romanzo. “La malattia mentale […] diviene l’immagine del diverso, dell’esterno, del mondo di fuori […] Chi ne è preso costituisce un organo malato e doloroso, ma anche antisociale e solitario. […] Il pazzo è la materializzazione del malessere diffuso, e ne è al tempo stesso l’arma più micidiale, nell’immaginario collettivo di una società che sta scoprendo, con sgomento e a colpi di shock, di non essere più il centro del mondo e di dover temere chi frequenta le zone ambigue dell’alterità” (Roberto Fedi, ibid.).

Non a caso, l’inizio e la fine del romanzo sono affidati a Nara e al dottor Moro, i due grandi solitari della vicenda: uniti da un destino di emarginazione e condanna. Senza appello per lui, il medico mutato in criminale. Con un filo di speranza, per la scellerata divenuta vittima.

 

Altro titolo famoso è La sepolta viva (1896). Qui, Maria viene narcotizzata e fatta seppellire dalla madre. Ancora una volta, l’istigazione viene dall’amante, che vuol liberarsi dai legami familiari della signora. La giovane viene però salvata da un medico che pratica, di nascosto, la dissezione dei cadaveri. Si reinventa una vita come Marion, bella cantante da caffè.

Troviamo così rovesciati gli stereotipi già visti. La protagonista positiva è proprio la donna pubblica, creduta una vamp per pregiudizio diffuso. L’amante scellerato è un uomo. Il medico, da semi-criminale (per la società di allora) diviene un sincero innamorato. Ma la sua figura è comunque al limite fra Bene e Male: portatrice sia di una missione benefica, sia di pratiche che (ai non specialisti) sanno d’occulto.

 

La Invernizio morì nel 1916, lasciando La fidanzata del bersagliere. Un’opera colma della Grande Guerra in corso: spartiacque storico, dopo il quale sarebbero arrivati nuove ideologie e una nuova società. Una società dove le donne avrebbero rivendicato di poter portare i pantaloni e affrontare le battaglie della vita – magari, per salvare un fidanzato costretto a travestirsi da donna e a tacere, in un pericoloso stratagemma. Come racconta il canto del cigno-Carolina.

 

Erica Gazzoldi

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