Sea Watch 3- la comandante Carola Rackete è stata liberata dopo quattro giorni agli arresti domiciliari.
La sentenza del gip, arrivata intorno alle otto di ieri sera, non ha confermato l’accusa di resistenza e violenza a nave da guerra e ha affermato che il reato di resistenza a pubblico ufficiale non sussiste perché la comandante della Sea Watch 3 avrebbe agito in nome “dell’adempimento ad un dovere”: quello di salvare vite umane.
La reazione del Ministro dell’Interno non si fa attendere
Nonostante lo smacco, Salvini afferma che è già pronto un “provvedimento per rispedirla nel suo paese perché pericolosa per la sicurezza nazionale” . Non si risparmia nella polemica che è andata avanti per tutta la giornata di oggi con la portavoce del governo francese Sibeth Ndiyay, la quale afferma che il comportamento di Salvini su questa vicenda “non è accettabile” e che l’Italia “non è all’altezza” della gestione dell’accoglienza.
In ogni caso Carola Rackete dovrà tornare in Italia per essere interrogata dai pm sull’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Intanto la Sea Watch 3 è ripartita da Lampedusa scortata dalla Guardia di Finanza verso Licata dove sarà tenuta sotto sequestro insieme alla Mare Ionio di Mediterranea.
Eppure, il caso Sea Watch 3, ricordano le parole di Papa Francesco che, nel 2013 durante una sua visita a Lampedusa diceva: “Chi è il responsabile del sangue di questi fratelli e sorelle? Abbiamo perso il senso della responsabilità fraterna”
Ma quando lo abbiamo perso e perché? Quando, cioè, abbiamo smesso di sentirci partecipi di un destino comune?
Per quanto l’attacco ai migranti e alle ONG sia stato ed è tuttora un tema centrale della propaganda politica del Ministro dell’Interno, mi sembra molto semplicistico cercare di ridurre l’aumento di atteggiamenti xenofobi o di indifferenza ai metodi di comunicazione di Salvini. Essi, infatti, affondano le loro radici in problematiche reali che la politica populista usa in modo strumentale, dando risposte semplici a problematiche complesse.
Nel suo ultimo libro La notte della sinistra, Federico Rampini ipotizza che essa (la sinistra) abbia sbagliato a concentrare il suo discorso politico solo sugli “ultimi”, spesso immigrati, dimenticandosi di quel ceto medio impoverito che ora sentendosi tradito, si rifugia sotto la bandiera del “prima gli italiani” e spesso ne adotta gli slogan e le parole d’ordine.
In ogni caso, fuori dalle responsabilità politiche, la paura del diverso, dello straniero, come ricorda Van Gennep, uno dei padri dell’etnologia moderna, è un istinto naturale che ha prodotto riti di approccio molto simili in tutto il mondo.
Ci sono due modi di guardare allo straniero: o come qualcosa di sacro, letteralmente sacro, cioè altro da sé e degno di interesse, o come qualcosa da rigettare perché non ancora parte della società
Ciò che distingue una comunità sana e civile è la capacità di vedere nella diversità una possibilità di crescita e di sentire l’altro: cioè praticare l’empatia. Tuttavia questo è possibile solo se si è coscienti delle proprie radici: è ciò che più comunemente chiamiamo “umanità”: non una questione di filantropia, ma premessa per una civiltà viva.
Questa è la ragione per cui il caso Sea Watch 3 ci tocca dal profondo
Le nostre radici, come ci ricordano spesso anche gli stessi che in in questi giorni hanno urlato “all’invasione”, affondano nelle civiltà classiche e nel cristianesimo: com’è possibile allora non ricordarsi della città accogliente per eccellenza, Atene? Quella stessa città che ha accolto Oreste in fuga rischiando di macchiarsi della sua stessa impurità, per dargli un rifugio. E le parole del Vangelo di Matteo “ricevete in eredità il Regno preparato per voi […] perché avevo fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato”?
Forse, se abbiamo la pretesa di sognare un mondo più giusto e più umano dovremmo veramente ritornare alle nostre radici, ma non per chiuderci in noi stessi e nei nostri confini nazionali.
Forse, se abbiamo la pretesa di sognare un mondo più giusto e più umano dovremmo ricordarci il “terzo articolo definitivo per la Pace Perpetua” scritto da Kant nel 1795: il diritto di visita, cioè “di unirsi temporaneamente a una società in virtù del diritto di comune possesso della superficie della terra, sulla quale […] gli uomini debbono rassegnarsi a coesistere.”
Forse, se abbiamo la pretesa di sognare un mondo più giusto e più umano dovremmo smetterla di avere paura di accogliere.
Matteo Giorgetti