La vicenda di Carola Rackete, la capitana della Sea Watch 3, ha scosso l’opinione pubblica, suscitando forti prese di posizione da parte di politici e intellettuali. Non ultima quella di Mario Vargas Llosa, Nobel per la letteratura 2010, il quale, in un articolo per il quotidiano spagnolo El País, ha suggerito la candidatura di Carola al premio Nobel per la pace.
La recente epopea che ha visto protagonista la capitana della Sea Watch 3, Carola Rackete, al largo delle coste di Lampedusa, ha trovato enorme risonanza su quotidiani, social network e trasmissioni televisive. Le linee di pensiero emerse intorno alla vicenda sono essenzialmente due. Una è quella di chi dice di temere una perdita di credibilità del nostro Paese, derivante dalla presunta incapacità di farne rispettare leggi e confini. L’altra è quella di chi invece ritiene che non vi sia alcuna colpa nel violare delle leggi considerate inique, quando si è mossi da cause superiori.
L’applicazione delle leggi
Vale la pena di fermarsi a riflettere per qualche istante. In primis: se qualcuno riesce a mettersi nelle condizioni di violare in flagranza di reato una o più leggi dello Stato, senza che le forze dell’ordine siano in grado di impedirglielo – nonostante i propri sforzi e gli esigui mezzi di chi starebbe commettendo il reato, come nel caso della Sea Watch 3 – allora, forse, bisognerebbe riconsiderare l’efficacia delle leggi, delle procedure e dei mezzi di cui le forze dell’ordine dispongono per fronteggiare specifiche situazioni ritenute pericolose.
Inutile ricordare che il compito di far rispettare le leggi non spetta né alle ONG né alla Commissione europea, ma a quello stesso esecutivo con il quale solidarizzano coloro che condannano tout court l’azione “di forza” della capitana Carola Rackete. Al contempo, è risibile (o drammatico, a seconda dei punti di vista) il fatto che gli stessi membri del governo, una volta preso atto della propria incapacità ad applicare le leggi, imbastiscano una campagna d’odio nei confronti del presunto colpevole. Come a voler dire: “se non posso darti un cazzotto, almeno posso insultarti.” Se è possibile, ancor più grave è l’esternazione, da parte del ministro dell’interno, di forti parole di dissenso (e insieme di sbeffeggio) nei confronti delle sentenze di un magistrato, rischiando così di minare il fondamentale principio della separazione dei poteri.
Violazione o adempienza a leggi “superiori”?
D’altro canto, però, chi pensa che la grandezza del gesto della capitana risieda nell’aver deliberatamente stabilito di violare le leggi dello Stato italiano, in virtù del nobile fine di condurre delle vite umane in salvo, forse non coglie appieno la portata del suo successo. A ben vedere, la vittoria di Carola sta proprio nell’aver dimostrato (al momento solo preliminarmente, con la sentenza di scarcerazione della gip di Agrigento, la quale ha comunque fatto cadere l’ipotesi di reato più grave, ovvero quella di “Resistenza o violenza contro nave da guerra”) di aver agito in accordo con il diritto. Nell’aver dimostrato che è il diritto stesso, in certe circostanze, a dettare quale sia l’azione più giusta da intraprendere. Che vi può essere conformità fra il sentire di una coscienza mossa da buon senso, o persino da bontà d’animo, e la legge.
Più in piccolo, sembra aver provato l’inefficacia di politiche migratorie basate esclusivamente sui respingimenti, proprio perché apertamente in contrasto con le leggi del diritto internazionale. Usando il recente adagio, non si può fermare il vento con le mani.
In questo contesto, non sorprende che qualcuno, in questo caso lo scrittore peruviano Mario Vargas Llosa, abbia suggerito il nome di Carola per il premio Nobel per la pace, con lo scopo di attribuire legittimazione e credito alle sue azioni. Personalmente, ritengo che sia più giusto – nonché più auspicabile per la causa di chi salva le vite in mare – che tale legittimazione arrivi a suon di proscioglimenti ed assoluzioni.
Alessandro Agugliaro