Carceri: “li abbattiamo come vitelli”

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Di Carmelo Musumeci


Nelle carceri i veri colpevoli e cattivi sono i politici e i funzionari che mettono nelle condizioni di compiere violenze.


Santa Maria Capua Vetere: penso che i cattivi non siano solo le guardie ma una buona parte della società che vuole che la pena faccia male. È ovvio che sono garantista, e non bisogna mai generalizzare, ma il linguaggio usato sulle chat degli agenti è certamente un dato certo. Il magistrato riporta: “Li abbattiamo come vitelli… domate il bestiame… Alcuni denudati in ginocchio, colpiti alle spalle”, per non parlare delle immagini del video che sta girando dove si vede un invalido in carrozzella bastonato da un agente.
Cerchiamo di fare un ragionamento: i protagonisti di quelle frasi e di quelle immagini sono cattivi? Non penso, sono vittime anche loro della cultura e della mentalità carceraria. Piuttosto sono molto più cattivi e colpevoli alcuni politici e funzionari ministeriali che li mettono nelle condizioni di compiere violenze. Penso che questo sia il vero problema, difficile da risolvere. In fondo, buona parte della società vuole che chi commette un reato o fa del male ne riceva altrettanto e il carcere li accontenta. Per questo, poca cosa possono fare i magistrati di sorveglianza, i direttori e le guardie carcerarie illuminate che si ribellano a quello che la politica e il popolo vuole. Vi ricordate che reazioni ci sono state per quei pochi detenuti vecchi e malati, pieni di tumori, condannati per mafia, che sono usciti dal carcere? Non serve a nulla fare delle buone leggi, migliorare le condizioni carcerarie se non si educa, ancora prima dei detenuti, alla legalità la società e chi lavora in carcere.  Chi fa un reato e chi fa del male non deve ricevere altro male, ma deve ricevere tanto, ma tanto, bene da convincerlo a tornare sui suoi passi.
L’arresto di alcune guardie? Alcuni politici e molte persone penseranno che le guardie arrestate stanno subendo un’ingiustizia, perché in fondo hanno fatto il loro dovere e vengono pagati anche male. Molti credono che per sconfiggere la mafia e la criminalità ci voglia il pugno di ferro, tanto carcere duro e magari ergastolo ostativo, ma dopo 30 anni mi sembra che i risultati non si vedano. Forse, dico forse, non converrebbe cambiare strategie e combattere questi fenomeni con legalità, intelligenza, speranza e umanità? Ma per fare questo bisognerebbe prima educare e convincere la società che almeno in carcere, più che fuori, la Costituzione e la Legge debbano essere rispettate da tutti e che è utile per tutti che la pena diventi la medicina e non più la malattia. È difficile che nelle nostre “Patrie Galere” un mafioso o un delinquente smetta di essere mafioso o delinquente, ed è  facile che chi lavora dentro perda la sua umanità. È storicamente provato che ripagare il male con altro male non è un deterrente, anche quando è previsto dalla legge.
Una mia lettrice, che ha letto quasi tutti i miei libri, dopo aver visto il video mi ha scritto: “Ma allora è tutto vero!”.  Le ho risposto che del carcere si sanno poche cose perché è il luogo più illegale di qualsiasi altro posto e non è cancerogeno solo per i detenuti, ma a volte anche per chi ci lavora. In un famoso esperimento, Philip Zimbardo attribuì a un gruppo di studenti, a caso, i ruoli di “guardia” e di “detenuto”, in un ambiente carcerario simulato. Dopo una settimana lo studio fu interrotto perché quei normalissimi studenti si erano trasformati in guardie brutali e in detenuti emotivamente distrutti. In seguito descrive pur come certe dinamiche di gruppo possano trasformare in mostri uomini e donne perbene, come ad esempio è successo che soldati americani, prima degni di stima, siano poi giunti a perpetrare torture sui detenuti iracheni ad Abu Ghraib.
Potrei portare qualche mia personale testimonianza, ma sarei troppo di parte, preferisco riportare quella di un mio compagno, Matteo Greco, che ho inserito anche nella mia prima tesi di laurea “Vivere l’ergastolo”:
Ormai da parecchie ore mi sono addormentato, ad un tratto mi sveglio di soprassalto, alcuni secondini hanno aperto la porta blindata ed il cancello, entrano in cella, circondando la branda e mi dicono: “Alzati, devi partire”. “Per dove?” Un secondino, con la mano destra, mi prende per i capelli tirandomi fuori del letto, un altro mi dà un pugno dall’alto verso il basso sul collo. Cerco di difendermi. Mi si buttano addosso in sei: pugni e calci, riesco a dare qualche pugno, cado per terra, mi rialzo, cado per terra, mi rialzo di nuovo finché ricado per terra per non avere più la forza di rialzarmi. In faccia sono una maschera di sangue, non ho detto una parola, né un lamento, si sono sentite solo le grida dei secondini. Mi portano all‘ufficio matricola, ancora tutto stordito mi vengono messi i tre pizzi (manette) salgo su un furgone blindato. Vengo fatto scendere all‘aeroporto militare. Non chiedo dove mi stanno portando e dove sono i miei vestiti. Infatti, l’unico vestiario che ho è il pigiama che indosso ed un paio di ciabatte di plastica ai piedi. Mi fanno salire su un elicottero militare, un rumore assordante, non mi è stata data la cuffia. Dopo molte ore arrivo all’isola di Pianosa e lì mi attendono una trentina tra secondini, carabinieri e finanza. È il 22 luglio 1992, ore 19 e 20, un caldo insopportabile. Finalmente è spento l’elicottero, una liberazione per le mie orecchie, ancora tutto stordito mi fanno scendere. Appena metto i piedi a terra alcuni secondini mi danno pugni e calci, vengo preso di peso come un fiammifero e vengo lanciato dentro una Jeep, sbatto la testa sulla sbarretta del bracciolo del seggiolino, le manette mi vengono messe ancora più strette, bloccando il passaggio del sangue dei polsi. Mi danno un pugno sulla testa gridando: “Abbassa la testa, bastardo”. Dopo cinque minuti di strada mi fanno scendere con uno spintone, cado per terra, per istinto mi porto l’avambraccio al viso riparandomi, vengo sollevato di peso con schiaffi e calci, fatto entrare in un fabbricato e messo in una cella d‘isolamento, tre metri per due, una branda di ferro massiccio saldata per terra, un lavandino d’acciaio saldato al muro, sopra un rubinetto con acqua salata non potabile. L’isola di Pianosa è sprovvista d’acqua dolce, è portata sull’isola da una nave cisterna, che la preleva da Piombino. Per bere si consuma acqua minerale imbottigliata. La direzione passa solamente un litro al giorno, l‘altra la dobbiamo comprare da noi se non vogliamo patire la sete. A fianco del lavandino c’è il gabinetto alla turca, a destra una mensola di ferro saldata al muro, a terra, nel mezzo, un seggiolino. I muri sono umidi, si sono formati alcuni canaletti che conducono fino al pavimento, l’acqua scorre come nei campi di riso. Mi viene ordinato di spogliarmi, rimango nudo, fatto abbassare a quattro zampe, mi vengono allargate le chiappe per guardare meglio nel buco, mi fanno aprire la bocca, alzare la lingua per ispezionarmi meglio, mi guardano persino dentro le orecchie e i fori del naso. Ad un tratto si scagliano di nuovo come belve assetate sul mio povero corpo, il pestaggio dura alcuni minuti lunghi come un’eternità! Svengo. Riprendo i sensi con una puntura fattami da una dottoressa, la quale vedendomi esclama: “Ma come è ridotta questa persona?”. Il suo lavoro (perché obbligata) è di far finta di nulla, infatti, nel certificato per la medicazione scrive: “Trattasi di una piccola escoriazione sulla fronte scivolando in cella”. Mi è imposto di firmare che sono caduto da solo. Spesso entrano in cella con una sbarra per battere le sbarre, mi ordinano di stare dritto e di abbassare la testa, di guardare per terra, con le mani dietro la schiena e sono costretto a salutare senza ricevere risposta, sia all’entrata dei secondini, sia all’uscita, per quattro volte al giorno. (…)
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