Ore pagate in nero, ricatti delle “cooperative senza terra”, collocazioni abitative che assomigliano a delle carceri, ritmi di lavoro massacranti, esternalizzazione del lavoro, giungla di contratti: non stiamo parlando del “retrogrado Sud Italia”, ma del vero teatro degli orrori che si consuma nelle campagne della Lombardia, che, con i suoi 14 miliardi di euro di valore della produzione agro-alimentare, è considerata la prima regione italiana del comparto. l’inchiesta dell’associazione Terra! “Cibo e sfruttamento – Made in Lombardia” ha messo in luce la realtà del caporalato in Lombardia.
Caporalato in Lombardia: il business dei meloni
Il primo settore su cui si concentra l’inchiesta dell’associazione Terra! sul caporalato in Lombardia è quello della produzione di Meloni, settore in cui la regione ha un ruolo primario, costituendo il secondo produttore di meloni d’Italia dopo la Sicilia. Come evidenziato dall’inchiesta questa produzione avviene principalmente nella provincia di Mantova.
La prima problematica che investe questa produzione secondo l’associazione Terra! sarebbe da ricercarsi a valle del processo produttivo, al momento della distribuzione. Infatti, siccome è la grande distribuzione organizzata (Gdo) a stabilire i prezzi di vendita ( attuando spesso e volentieri aggressive politiche promozionali), i produttori si trovano a dover vendere i propri meloni a prezzi inferiori rispetto a quelli necessari per ottenere un guadagno, coprendo allo stesso tempo tutti i costi. Qui risiederebbe il principio del circolo vizioso in base al quale i produttori decidono di risparmiare sull’unica voce di spesa su cui sembra possibile farlo: il lavoro umano. Sarebbe dunque questa situazione a dare l’impulso iniziale del caporalato in Lombardia e l’incentivo ad assumere lavoratori in base a quella che potremmo chiamare “la regola delle 180 giornate”. Come si legge nel rapporto “Cibo e sfruttamento – Made in Lombardia”, «l’imprenditore si assicura un lavoro continuativo tutto l’anno, ma non registra mai più di 180 giornate, il numero necessario ad accedere alla disoccupazione agricola. In questo modo, paga meno tasse e costringe il lavoratore in una condizione di subalternità». Certo, il lavoratore percepisce una parte della retribuzione in nero, ma questo lo rende ricattabile, alla mercé dell’imprenditore e delle sue richieste, senza alcun vincolo contrattuale e garanzia.
Già nel 2020, un blitz dei carabinieri in due aziende nel mantovano aveva fatto emergere come gran parte dei lavoratori fosse assunta in nero e addirittura 15 di loro non disponessero di documenti. Il fenomeno era già noto da anni, basti pensare alla tragica morte di Vijay Kumar Il 27 giugno del 2008: l’uomo, indiano, 44 anni, assunto in nero e privo di documenti morì di stanchezza mentre raccoglieva meloni per un’azienda di Salina, nel viadanese.
Cooperative “senza terra”
Un’altra realtà sconvolgente del caporalato in Lombardia che emerge dall’inchiesta è quella delle cooperative “senza terra”. Queste imprese, che anche se portano il nome di “cooperative” non hanno in alcun modo a che fare con le cooperative utilizzate in passato dalle associazioni operaie per sottrarre appalti agli imprenditori agricoli, nascono con l’intento di «convogliare “braccia” nelle aziende agricole durante i periodi più gravosi della stagione, dove è necessaria maggiore forza lavoro». Insomma, si tratta di “caporali legalizzati” che soggiogano e ricattano lavoratori migranti, trattandoli come merci da svendere al migliore offerente.
Le cooperative “senza terra”, se pur formalmente legali, agiscono come vere e proprie associazioni a delinquere, elargendo salari che si aggirano attorno ai 5 euro l’ora a fronte dei 9 euro e 44 centesimi previsti. Sono rari i casi di aziende agricole che sembrano affidarsi a tali cooperative in buona fede, cioè elargendo un corrispettivo congruo per coprire il salario dei lavoratori, molto più frequenti risultano i casi di conclamata connivenza. Come evidenziato dal rapporto, spesso la condizione di soggiogamento dei lavoratori migranti alle cooperative è così grave da sfociare in veri e propri ricatti, ad esempio relativi all’ottenimento al permesso di soggiorno.Ѐ il caso di un lavoratore a cui una di queste cooperative chiese ben 500 euro per iniziare l’iter per l’ottenimento dei documenti necessari.
Condizioni abitative
Siccome nelle fasi più intense del ciclo produttivo gli imprenditori necessitano di «forza lavoro immediata e flessibile», spesso le stesse cooperative “senza terra” si occupano di stipare i migranti in pochi metri quadrati nei pressi dell’azienda, incassando così anche l’affitto che i lavoratori sono costretti a pagare. Quando non sono le cooperative, a fare quest’operazione ci pensano gli imprenditori stessi, mettendo a disposizione alloggi di loro proprietà e detraendo poi il canone dal salario. Nei casi più estremi i migranti vengono stipati direttamente nei capannoni industriali, come è accaduto a Volta Mantovana, dove «i lavoratori migranti erano stipati in un cubo di cemento scrostato su un’altura a pochi passi dal centro abitato» e «Il caporale gestiva le loro esistenze indirizzandole, dal lunedì al venerdì, nei campi di zucchine. E il sabato e la domenica, invece, negli allevamenti dei polli».
I settori delle insalate “ready to eat” e della filiera suinicola
Al di là di situazioni di conclamato caporalato, l’inchiesta dell’associazione Terra! indaga l’area grigia che caratterizza tutte le situazioni di esternalizzazione dei servizi e subappalti, così come l’utilizzo di diciture contrattuali ambigue per fare profitto sulle spalle lavoratori. Per fare ciò, l’indagine si concentra su due settori considerati esemplificativi: quello delle insalate “ready to eat” nel bresciano e nel bergamasco e la filiera suinicola, estesa in tutta la regione.
Per quanto riguarda il business del “ready to eat”, così come nella filiera suinicola, il rapporto evidenzia innanzitutto il problema dell’esternalizzazione dei servizi, utile per avere flessibilità, ovvero precarizzazione della forza lavoro. Distinguere i dipendenti direttamente assunti dall’azienda dagli impiegati tramite cooperative e ditte esterne ha il solo scopo di estendere arbitrariamente l’orario lavorativo di quest’ultimi, comprimendone i salari e aumentando a dismisura i ritmi di lavoro, senza tuttavia dovergli dare alcuna garanzia: «La differenza tra dipendenti e impiegati tramite cooperativa non è solo nel netto in busta paga. Ai primi, in caso di malattia, è corrisposto il 100% dello stipendio. Ai secondi il 40/50 , grazie a regolamenti interni adottati dalle cooperative, nei quali viene inserita una clausola di non integrazione delle quote spettanti alla parte datoriale. I dipendenti hanno un sistema di banca ore che regola le ore lavorate in eccesso e quelle in difetto, con uno stipendio che
resta costante a prescindere dai flussi di produzione. Per gli operai
delle cooperative il sistema è diverso: se c’è meno lavoro, si resta
a casa e si guadagna di meno», si legge nel rapporto. Insomma, potremmo dire che la differenza tra i dipendenti assunti direttamente e quelli impiegati tramite cooperativa crei una distanza ontologica tra un lavoratore e l’altro, costituendo così un ulteriore modo di atomizzare la classe operaia, in modo da soffocare l’organizzazione del dissenso. Questo è confermato dal fallimento di molti scioperi organizzati dagli operai impiegati tramite cooperative «Quando abbiamo scioperato le linee di produzione sono andate avanti con altri immigrati, solitamente africani, sempre mandati dalla cooperativa», racconta un operaio intervistato durante l’inchiesta.
Un capitolo a parte andrebbe poi aperto per la differenziazione delle tipologie di contratti stipulati dalla stessa azienda con lavoratori che svolgono di fatto le stesse mansioni (Le tipologie individuate: quello agricolo, del commercio, quello per i dipendenti della piccola e media industria, quello dell’ortofrutta e quello per l’industria alimentare), applicata per poter sfruttare al meglio il lavoro umano senza odiose costrizioni di diritti e garanzie.
Pensieri conclusivi
Più il sistema capitalistico è sviluppato, più peggiorano le condizioni dei proletari, questa è una verità da imprimersi nel cervello a lettere di fuoco. L’illegalità in economie capitalistiche avanzate come quella lombarda è sistemica, funzionale al riprodursi del sistema. Il caporalato non è un fenomeno del Sud arretrato destinato a scomparire, ma piuttosto una pratica che raggiungerà livelli sempre più critici man mano che lo sviluppo capitalistico del paese arriverà a livelli più alti. Quindi, attenzione a identificare la crescita economica con il concetto di progresso. L’unico risultato che otterremo se non cerchiamo di immaginare un’economia diversa, basata sull’autogestione e il cooperativismo (quello vero), sarà (ed è già) quello di legittimare fenomeni come il caporalato in nome della sopravvivenza di un sistema, quello neoliberista, che è come un vampiro: per sopravvivere ha bisogno del sangue della gente.
L’esodo dei migranti che muoiono di fatica nei campi, nelle serre e nelle fabbriche del nostro paese richiama alla mente l’esodo dei Joad nel capolavoro di Steinbeck, “Furore”, romanzo in cui racconta della Grande Depressione e della terribile situazione dei contadini, strappati dalle proprie terre e costretti a vagare verso la California, terra di abbondanza, dove tuttavia i grandi produttori preferiscono buttare gli splendidi frutti pur di non far calare il prezzo di mercato, mentre la stragrande maggioranza muore di fame e fatica. Sono passati più di ottant’anni da quando è stato scritto “Furore”, ma leggendo il rapporto di Terra! sul caporalato in Lombardia (in particolare, le pagine riguardo alla produzione di meloni) sembra di leggere esattamente le pagine di Steinbeck. Questo dà la misura di come le immagini di quel romanzo, col passare degli anni, diventino sempre più concrete per fette di popolazione mondiale sempre più ampie. Nonostante il grande lavoro di associazioni come Terra! o di sindacati di base come l’adl Cobas, la stragrande maggioranza delle persone si rifiuta ancora di vedere la realtà. A quelli che sono ancora convinti che il capitalismo rappresenti il migliore sistema possibile si affiancano i rassegnati, quelli per cui «è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo». Per questo vorremo concludere proprio citando Steinbeck: «Terribile è il tempo in cui l’Uomo non voglia soffrire e morire per un’idea, perché quest’unica qualità è fondamento dell’Uomo, e quest’unica qualità è l’uomo in sé, peculiare nell’universo».