Il Capodanno: un rito di passaggio
Manca poco a Capodanno e, come ogni anno, l’imperativo del “divertirsi” non tarda a manifestarsi, finendo per generare in moltə di noi soltanto grande ansia. La notte di Capodanno infatti, nel suo porsi come confine tra il vecchio e il nuovo anno, rappresenta a tutti gli effetti una fase di transito, un vero e proprio momento liminale, un rito di passaggio.
Sebbene la tendenza a sentirsi solə nell’avvertire un certo tipo di ansia sia diffusa, la criticità che percepiamo a cospetto di un confine è un aspetto del tutto comune.
Nel suo saggio Il viaggio dell’eroe lo sceneggiatore statunitense Christopher Vogler, descrivendo lo sviluppo delle diverse tappe costitutive del percorso dell’eroe, traccia con grande chiarezza la tipicità delle strutture narrative occidentali.
Alla fase della chiamata all’avventura, Vogler fa seguire quella dell’attraversamento della soglia, segnalando così il momento che sancisce il passaggio definitivo del protagonista dal mondo ordinario al mondo straordinario.
In questa fase, all’eroe è richiesto un vero e proprio atto di coraggio: la chiamata infatti lo invita ad una rimessa in discussione di tutti quegli elementi che fino a quel momento avevano costituito la sua quotidianità, arrivando a delineare il momento del transito con connotati di alta criticità.
Se si considera il termine “crisi” nella sua accezione etimologica di «decidere, scegliere», risulta chiaro come il protagonista sia inevitabilmente chiamato a fare una scelta tra cosa abbandonare definitivamente e cosa portarsi dietro.
Quando arriva Capodanno ci troviamo di fronte allo stesso tipo di dinamica: come la soglia di Vogler “costringe” l’eroe ad interrogarsi su se stesso, così l’ingresso al nuovo anno ci invita sistematicamente ad un dialogo interiore.
La società della performance e l’insoddisfatto bisogno di sacralità
Ma come si colloca tutto questo all’interno di una società così intrinsecamente votata alla performance? A chi appartiene il metro di giudizio con cui stabiliamo quali debbano essere i nostri traguardi?
Ne La società della performance, Andrea Colamedici e Maura Gancitano evidenziano chiaramente come il contesto altamente performativo a cui apparteniamo tende a seguire un movimento dettato da dinamiche che rispondono a leggi predisposte a privilegiare l’esibizionismo prima ancora che l’autentico. Mostrando solo il “bello”, la modalità performativa adottata dalla società contemporanea detta un modello di positività tossica che entra inevitabilmente in collisione con una certa ricerca di senso.
In tale contesto, il Capodanno, latore di un’inevitabile dimensione di sacralità, scardina il lineare avanzamento del quotidiano, costringendoci a ripensare il nostro rapporto col tempo e spingendoci inesorabilmente a “tirare le somme” degli obiettivi raggiunti (o mancati) dell’anno che stiamo per lasciarci alle spalle.
“La società della performance trova terreno fertile laddove ci sia un bisogno insoddisfatto di senso e di sacro, perché si propone come soddisfazione di questo bisogno ma, non essendo in grado di soddisfarlo, porta la persona a sviluppare una dipendenza dalle performance, cioè dalle imitazioni del sacro. La società della performance si propone come soddisfazione del bisogno di sacralità perché ne ha paura.”
(La società della performance, Andrea Colamedici, Maura Gancitano)
Non a caso quindi, in un momento di transito come l’ultima notte dell’anno, dove la dimensione della sacralità bussa con veemenza alla porta dell’Io, si manifesta più forte che mai l’ostinazione da parte di moltə a ricercare occasioni ludico-collettive dove sia possibile dare spazio in primo luogo al divertimento, nel tentativo appunto di “di-vertirsi”, di “volgere altrove” lo sguardo, così da evitare l’introspezione verso cui l’occasione liminale invita ad accedere.
Sebbene se ne percepisca il bisogno, fatichiamo a guardarci dentro, ed è proprio a partire da questa consapevolezza che si genera la frattura, la cosiddetta “crisi”: la percezione dell’incongruenza tra ciò che siamo e ciò che siamo portati a manifestare di noi stessə, destabilizza, confonde e rimescola continuamente gli elementi in gioco.
“La società della performance non è riconducibile a una serie di dinamiche socio-economiche esterne a noi, ma è una grammatica della mente, un modo di pensare che sta lentamente ma inesorabilmente colonizzando ogni abitante del mondo, nessuno escluso. Com’è ovvio, di fronte a questo sistema ognuno cerca una fuga e una giustificazione. Abbiamo paura di osservare e analizzare in profondità il fenomeno, di renderci conto di farne parte.”
(La società della performance, Andrea Colamedici, Maura Gancitano)
Incapaci di abitare certe zone dell’interiore, disimpariamo a connetterci col senso, con l’autentico, con la meraviglia, ignoriamo la nostra chiamata all’avventura, vanificando così l’occasione di compiere quell’atto di coraggio che conferisce all’eroe il diritto di nominarsi tale.
Morfologia della performance: da “atto bugiardo” a “fatto eroico”
Forti dell’intuizione che le dinamiche della performance risultino perciò tossiche, sorge naturale chiedersi se e come sia possibile scongiurarle. Se in questo tempo “della performance” che ci siamo ritrovati ad abitare, performare viene percepito come un atto bugiardo nei confronti di se stessə, se risulta un espediente dell’autoinganno deputato più all’esibizione del bello-a-prescindere che all’osservazione del sacro mistero del sé, potrà mai la performance arrivare a compiersi come fatto eroico?
Nel saggio Dal rito al teatro, l’antropologo scozzese Victor Turner richiama l’attenzione proprio sulla centralità, in ordine di importanza, che il termine performance ricopre all’interno di un gruppo sociale.
“La parola performance non rimanda necessariamente alla connotazione strutturalista del manifestare una forma, ma piuttosto al senso processuale di «portare a compimento» o «completare». To perform è dunque portare a termine un processo più o meno intricato, più che eseguire una singola azione o un singolo atto.”
(Dal rito al teatro, Victor Turner)
Turner ci suggerisce allora che la performance, se consapevole (se quindi agita e non subita), può costituire a tutti gli effetti un mezzo validissimo da cui far emergere delle possibilità riflessive.
Nei suoi studi sul dramma sociale lo studioso considerava infatti la forma drammatica ed estetica uno strumento del tutto utile alla comprensione antropologica dell’agire umano.
“To perform del materiale etnografico, quindi, significa procurare a noi stessi la comprensione dei dati nella loro interezza, nella pienezza del loro significato di azione. […] I desideri e le emozioni, i fini e le strategie individuali e collettive, e anche le vulnerabilità, la stanchezza e gli errori legati a determinate situazioni, vanno perduti nel tentativo di reificare e di produrre una teoria asettica del comportamento umano che si modella essenzialmente sugli assiomi “scientifici” settecenteschi esprimenti la fede nella causalità meccanica. Sentimenti e desideri non sono una contaminazione della pura essenza conoscitiva, ma elementi intrinseci alla nostra natura di uomini.”
(Dal rito al teatro, Victor Turner)
Performare dunque, non solo comporterebbe una maggiore consapevolezza di certe dinamiche sociali, ma ci spingerebbe inevitabilmente anche verso la ricerca di un sincero contatto con quella dimensione di senso e di autentico, di sacro e di meraviglioso che un po’ tuttə, in fondo, sentiamo il bisogno di raggiungere.