Durante la Seconda Guerra Mondiale, gli americani internarono in campi di concentramento migliaia di persone, una verità cancellata dai libri di Storia.
Il 19 febbraio 1942 Franklin Delano Roosevelt, emise l’ordine esecutivo 9066. Questo decreto decideva il destino di migliaia di residenti, e in molti casi, di cittadini americani a tutti gli effetti, con origini giapponesi, italiane e tedesche. Questi sarebbero stati rinchiusi in campi di concentramento fino al termine del conflitto mondiale.
Alla base di tale provvedimento vi era ufficialmente lo stato di belligeranza in atto con l’asse Roma Tokyo Berlino. In realtà, questo fenomeno di raccoglimento dei così detti “stranieri ostili” era cominciato prima del decreto ufficiale, grazie all’intervento dello United States Census Bureau, che fornì informazioni riservate, come ad esempio gli indirizzi di residenza.
Il processo di internamento
Il trasferimento dei giapponesi-americani riguardò circa 110.000 persone che vivevano principalmente lungo la West Coast. Il 62% di queste erano a tutti gli effetti cittadine statunitensi, chiamate con il termine nipponico Nisei, letteralmente “seconda generazione nata in paese straniero”. Il governo americano tuttavia ignorò tale dato, in particolare il generale e difensore del fronte occidentale John L. De Witt affermò:
La razza giapponese è una razza nemica i cui effetti non si diluiscono neppure dopo tre generazioni.
La comunità italiana negli Stati Uniti era la presenza straniera più numerosa, alimentata particolarmente dai flussi migratori degli anni Trenta. Si contavano milioni di cittadini di origine italiana durante il periodo bellico. Più di 600.000 di questi erano nemici secondo il governo. Non si effettuò nessuna distinzione ideologica o politica, si internarono nei campi di concentramento americani, imprenditori iscritti al partito fasciata, così come rifugiati antifascisti non ancora cittadini naturalizzati.
Nel caso dei tedeschi il fenomeno prese risvolti differenti. Solamente nel 1942 in Nord Carolina si adibirono i primi appositi centri di concentramento per il gran numero di prigionieri di guerra. Essi non arrivavano solo dall’Europa, ma anche dall’Africa dopo le vittorie riscosse dagli Alleati. Si fece particolare attenzione alla Convenzione di Ginevra, che prevede un trattamento umano per i prigionieri, nella speranza che i prigionieri americani in Germania godessero degli stessi diritti. Nell’inverno 1944 inoltre si lanciò un programma di rieducazione volta a neutralizzare la presenza dell’ideologia nazista nei campi di prigionia.
Verso la fine del conflitto…
Nel 1944, finì l’incubo dei dei prigionieri nei campi di concentramento americani. Tuttavia il ritorno alla libertà non bastò all’ americano-giapponese Fred Korematsu. Egli obbiettò alla corte suprema la regolarità dell’ordine esecutivo 9066. La sentenza non portò riscatto all’ex internato, poiché si giustificò la costituzionalità del sospetto durante circostanze di pericolo ed emergenza. Nel 1980 il presidente Jimmy Carter nominò un’apposita commissione di indagine, ma solamente sotto la presidenza Reagan si stabilì il pagamento di un risarcimento morale ai sopravvissuti. Inoltre si ammise che il provvedimento 9066 non si basava su reali necessità belliche, ma su presupposti razzisti.
Un destino differente ebbero i perseguitati italiani e tedeschi, che non ricevettero mai dei risarcimenti. Solo nel 2010 lo Stato della California ha approvato una risoluzione a favore dei residenti Italo-americani chiedendo scusa per i maltrattamenti.
Anna Barale