Camillo Sbarbaro: la possibilità della poesia in un mondo che si sgretola

camillo sbarbaro

Camillo Sbarbaro è uno dei quei poeti stimati dagli addetti ai lavori, ma poco conosciuto dal grande pubblico.

Eppure, le sue poesie hanno grande valore. Non meno incisivi di quelli di Montale, i suoi versi hanno lasciato una importante traccia nella storia della letteratura italiana.

Proprio Montale, nel suo Ossi di Seppia, gli dedicò un epigramma nel quale si augurava che qualcuno guidasse in un porto sicuro la flottiglia dei suoi versi e delle sue prose liriche. Un compito importante, quello di mettere al sicuro la poesia.

Nato nel 1888 in Liguria, Camillo Sbarbaro è ricordato soprattutto per la sua raccolta più significativa, Pianissimo (1914), e la prosa dei Trucioli (1920).

Perché è importante ricordarlo?

Sicuramente, perché ha scritto uno dei piccoli classici della modernità, Pianissimo, appunto. La modernità di quest’opera risiede nella capacità di stravolgere quelle che erano le rigide regole della metrica tradizionale, adottando la canzone leopardiana in endecasillabi sciolti alternati a settenari o misure più brevi, insistendo con l’utilizzo di versi tronchi e enjambement. Una poetica del frammento, di rottura. Un diario lirico, prima del Porto Sepolto di Ungaretti.

Ma il punto di forza della poesia di Camillo Sbarbaro non sta solo nella forma, incisiva, quasi un’arma fendente.

I contenuti sono altrettanto potenti, e rappresentano l’eredità di quella che era stata la lezione francese di Baudelaire. Come il grande maestro, infatti, si trova a snocciolare uno dei più grandi dilemmi dell’età moderna: è ancora possibile scrivere poesie? E che ruolo può avere il poeta nella società moderna?

Questo quesito, se già era incalzante ai tempi di Baudelaire, diventa sempre più significativo nell’anno della pubblicazione di Pianissimo, il 1914. Siamo alla vigilia del primo conflitto mondiale, che sancisce in maniera inauditamente drastica il passaggio ad un epoca diversa, fatta di trincee e filo spinato.

L’essere umano, così come il poeta, subisce le innovazioni del nuovo mondo, e viene ridotto allo stato di sonnambulo.
Stupefatto, spaesato, altro non può se non assistere agli avvenimenti del mondo, dopo aver constatato la morte dell’anima. L’anima diviene la cassa di risonanza di una voce ben più imponente, sente il bisogno del grido ma non può che abbracciare il mutismo.
Una condizione che comporta la perdita dell’aureola del poeta, decaduto.

L”unica attività ponderabile è quella dell’osservazione. L’artista osserva, interiorizza, ma sente di non riuscire ad esternare le sue emozioni, il suo mondo interiore. Questo si traduce in una feroce incomunicabilità tra l’io e il mondo fuori. Il poeta si ripiega su se stesso, chiudendosi all’esterno.

Perduta ha la sua voce

la sirena del mondo, e il mondo è un grande

deserto

Nel deserto

io guardo con asciutti occhi me stesso.

Camillo Sbarbaro

 




Se è vero che il poeta sente, visceralmente, l’impossibilità di una comunicazione con il mondo, il fatto che questi versi, come molti altri di Sbarbaro, arrivino in maniera diretta, chiara, al lettore, implica che nonostante tutto, la poesia può trovare un suo spazio anche in un mondo che sembra privo. Solo, presumibilmente, è destinata a cambiare forma con il passare del tempo.

A conti fatti, la poesia era possibile, se non indispensabile, anche nel 1914, quando tutto stava andando in pezzi.

Dopo la prima guerra mondiale, e ancora di più dopo la seconda, la possibilità della poesia è stata messa in discussione innumerevoli volte. Ma, a meno che gli esseri umani non smettano di sentire, possiamo dire che sia mutevole, ma al sicuro.

Sofia Dora Chilleri

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