“Se la Gran Bretagna lasciasse l’Unione Europea, il rischio di guerra tornerebbe a incombere sul continente”. Con queste parole, il premier britannico David Cameron ha tuonato contro la Brexit in un comizio durante la campagna elettorale. Il premier ha poi continuato sottolineando come l’Unione Europea abbia aiutato in misura importante a mantenere la pace e a riconciliare paesi che erano stati in guerra gli uni contro gli altri per decenni.
È piuttosto straniante leggere queste dichiarazioni di David Cameron adesso, mentre fino a due mesi fa l’Europa era additata dallo stesso premier come la causa di tutti i mali delle isole britanniche, dalla presunta “invasione” di stranieri dall’Europa orientale che arrivavano in massa per approfittare del “generoso” welfare britannico fino alla burocrazia di Bruxelles, moloch insaziabile che strangola la nazione (cercando di integrarla sempre di più nell’Unione) e la virtuosa City londinese con “lacci e lacciuoli” come i controlli di un organismo indipendente (orrore!). Infine, ultima ma non da meno, vi è la convinzione che la Gran Bretagna, al di fuori dell’Unione Europea, possa riconquistare la sovranità perduta. Ma a cosa è dovuto questo repentino cambio di fronte di Cameron?
Nella notte tra il 19 e il 20 febbraio, dopo settimane di trattative serrate, la Gran Bretagna e l’Unione Europea hanno raggiunto un accordo con cui Londra ottiene diversi benefici a costo zero. In particolare: riduzione di una serie di benefici fiscali ed economici ai cittadini di altri paesi della UE, ovvero la possibilità di impedire l’accesso al welfare per i primi quattro anni (sussidi di disoccupazione e assegni familiari); modifica dei trattati europei, così da specificare che la parte in cui si parla di un’unione sempre più stretta non riguarda il Regno Unito e garanzie di maggiore indipendenza delle società finanziarie con sede in Gran Bretagna dai regolatori europei. Tutto questo in cambio della permanenza britannica nell’Unione, ossia quella stessa unione che ha visto molte volte vanificare numerose misure di integrazione, rigorosità dei controlli e lotta contro elusione ed evasione fiscale proprio a causa dell’opposizione della Gran Bretagna e di Cameron. Perché quindi lottare per mantenere dentro di se una simile spina nel fianco?
La vera risposta non è tanto economica, quanto politica. A Bruxelles è chiarissimo che sia questo trattato, sia un eventuale successo del referendum britannico costituiscono un precedente molto pericoloso per la sopravvivenza dell’Unione stessa. Il trattato lo è perché si tratta di uno strappo sul fronte delle discriminazioni tra i cittadini europei, l’eventuale uscita lo sarebbe perché minerebbe alla base quel concetto di irreversibilità del processo di integrazione continentale, spalancando praterie a tutte le forze populiste euroscettiche fiorite ovunque in Europa. Lo stesso referendum sulla Brexit è stato indetto da Cameron sia per sconfiggere alle elezioni il partito UKIP di Nigel Farage, evitando di farsi superare a destra, sia per placare le voci più scettiche verso l’UE all’interno dei Tories (tra cui il sindaco di Londra Boris Johnson). Tuttavia ora questo referendum rischia di rivelarsi un boomerang per Londra.
Infatti, secondo alcuni sondaggi, l’elettorato è spaccato a metà con i contrari all’uscita della Gran Bretagna dall’Europa in vantaggio al 51%. Un risultato che rimane pericolosamente in bilico, a cui basterebbe poco per essere ribaltato. Quello che rischia di far pendere la bilancia dalla parte dei favorevoli alla Brexit sono le rivelazioni dei Panama Papers: è noto infatti che Cameron sia menzionato a riguardo del fondo Blaimore Holding di proprietà del padre, di cui lo stesso premier è risultato essere tra i beneficiari. L’immagine del premier britannico di paladino anti evasione è stata fortemente compromessa da queste rivelazioni, e tutto questo peserà fortemente sul referendum (che si terrà il 23 giugno). Il premier si sta impegnando nella campagna a favore della permanenza in Europa paventando il rischio di dover rinegoziare ben 27 trattati di libera circolazione e scambio con Bruxelles, ma (come detto sopra) il futuro è incerto.
Venti disgregatori soffiano sull’Europa, e dare fiato al populismo per farsi rieleggere non è mai una buona scelta. Cameron rischia di pagare a caro prezzo questa linea politica boriosa e arrogante. Infatti, le condizioni economiche in cui precipiterebbe la Gran Bretagna in caso di uscita dall’Europa (una perdita di PIL compresa tra il 2,7% e il 7% annuo fino al 2030 secondo l’OCSE) sarebbero devastanti per i sudditi di sua maestà.
Adesso il cerino è in mano a Cameron, e il rischio di bruciarsi è estremamente concreto.
Lorenzo Spizzirri