Cambio vertici RAI: le dimissioni di Fuortes e l’addio di Fazio sono i primi segnali di una deriva della libertà di espressione in Italia?
Lunedì 8 maggio, l’ormai ex amministratore delegato della Rai nominato dal precedente governo Draghi, Carlo Fuortes ha annunciato le sue dimissioni un anno prima della scadenza del suo mandato, lasciando la possibilità al governo Meloni di sostituirlo con un dirigente più affine alla sua linea politica.
In una comunicazione al Ministero dell’Economia e delle Finanze, Fuortes ha dichiarato di non poter “accettare il compromesso di condividere cambiamenti di linea editoriale e una programmazione che non considero nell’interesse della Rai”. Ha quindi affermato che “prendo atto che non ci sono più le condizioni per proseguire il mio lavoro di amministratore delegato”.
Dall’inizio del 2023, secondo Fuortes “sulla carica da me ricoperta e sulla mia persona si è aperto uno scontro politico che contribuisce a indebolire la Rai e il Servizio Pubblico”. E, allo stesso tempo, dice di aver riscontrato all’interno del Consiglio di amministrazione della Rai il “venir meno dell’atteggiamento costruttivo che lo aveva caratterizzato, indispensabile alla gestione della prima azienda culturale italiana”.
La posizione ricoperta da Fuortes era nel mirino del governo già da tempo e, secondo la stampa, la strategia per accaparrarselo è rappresentata dal decreto legge sulle “disposizioni urgenti in materia di amministrazione di enti pubblici e società”, conosciuto appunto come decreto Fuortes, approvato dal Consiglio dei Ministri il 4 maggio 2023.
Le nuove norme impongono un limite di 70 anni di età ai dirigenti di strutture che rientrano nel bilancio dello Stato, come teatri e fondazioni lirico-sinfoniche, che, secondo molti, nasce come atto ad personam per liquidare Stephane Lissner, direttore del Teatro San Carlo di Napoli e affidare il suo posto a Fuortes.
Secondo USIGRai (Unione Sindacale Giornalisti Rai) e FNSI (Federazione Nazionale Stampa Italiana), questo “decreto legge per occupare la Rai è un atto di protervia istituzionale senza precedenti” e aggiungono che “il governo non si accontenta della pessima legge sulla governance voluta da Renzi e va oltre: con un decreto fa cartastraccia di ripetute sentenze della Corte Costituzionale”.
Questo decreto si inserisce all’interno di un importante cambiamento nel panorama culturale totalmente in linea con il temperamento e con il programma della presidente del Consiglio. Il che non fa altro che amplificare i timori di derive populiste e autoritarie delle opposizioni.
Il nuovo CDA RAI vicino alla destra
Il Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro dell’Economia e delle Finanze Giancarlo Giorgetti, ha deliberato la nomina di Roberto Sergio quale nuovo amministratore delegato della Rai. Sergio, attuale direttore di Radio Rai 1 e molto vicino al democristiano Pier Ferdinando Casini, di cui è stato anche testimone di nozze, prenderà quindi il posto lasciato da Fuortes, dando il via al nuovo corso dell’azienda di viale Mazzini.
Al fianco di Roberto Sergio, nel ruolo di direttore generale, è emerso il nome di Giampaolo Rossi, intellettuale della destra e da anni manager della tv pubblica. Per anni (fino al 2018) ha curato un blog su Il Giornale in cui possono essere rintracciate alcune sue opinioni più estremiste. Tra i vari articoli, si leggono titoli come “Il nigeriano e il buonista” in cui “il primo è un criminale. Il secondo è un idiota. Il primo fa lo spacciatore e il macellaio sui corpi di povere ragazze. Il secondo fa il politico di sinistra, l’intellettuale impegnato, il volontario delle ONG con i soldi si Soros, il fighetto radical-chic con il culo degli altri” e “L’Europa sarà africana. Lo vuole l’élite” in cui fa riferimento a teorie del complotto sulla sostituzione etnica per cui “100 milioni di esseri umani, per lo più maschi di età compresa tra i 18 e 35 anni, arriveranno in Europa entro il 2050; come si possa non aver paura di questo scenario è cosa incomprensibile che sfiora la follia”.
Le nomine relative alle direzioni di genere vedono i nomi di Angelo Mellone per il DayTime, Paolo Corsini per i programmi di approfondimento e Marcello Ciannamea all’intrattenimento in Prime Time.
Per quanto riguarda i telegiornali, il TG1 potrebbe essere affidato alla direzione di Gian Marco Chiocci, favorito della Meloni. Dal 2018 direttore dell’agenzia di stampa Adnkronos, la seconda dopo l’Ansa. Dichiaratamente di destra, Chiocci gode di un buon rapporto anche con Giuseppe Conte. Ma non sono le posizioni politiche a creare problemi, quanto piuttosto il fatto che sia un direttore esterno e, come riporta Open “gli esterni arrivati ai vertici del servizio pubblico non hanno mai avuto vita facile con la struttura interna”. Lo stesso Giampaolo Rossi avrebbe suggerito alla presidente del Consiglio di non forzare la mano con gli interni Rai. Relativamente al TG2, mentre una parte di Fratelli d’Italia spinge per Nicola Rao, Forza Italia sembra insistere su Antonio Preziosi.
Dopo Fuortes, l’addio di Fabio Fazio e Luciana Littizzetto
Con il ricambio dei vertici Rai, anche RaiTre sembra essere destinata a terminare la sua funzione di riserva della sinistra. L’addio di Fabio Fazio, dopo 40 anni, ne è una prova. Il governo di centro-destra si mette infatti all’opera per cambiare la narrazione e ricalibrare l’offerta culturale della Rai. C’è chi infatti accoglie con gioia il passaggio di Fazio a Discovery, come ad esempio Matteo Salvini, leader della Lega nonché ministro delle Infrastrutture, il quale saluta il duo Fazio-Littizzetto con “Belli ciao”. Ma anche Gasparri, ironico più che mai osserva “se il noto conduttore dovesse, per sua autonoma decisione, passare a un’altra emittente televisiva propongo alla Rai di lasciare vuoto lo spazio televisivo mettendo un’immagine fissa al posto di Fazio”. Francesco Bria, membro del CdA Rai in quota PD considera invece un danno all’azienda di viale Mazzini l’uscita di Fazio in termini di “identità, qualità culturale e ascolti”.
Il principio della lottizzazione della Rai, che fa si che al governo in carica e ai partiti politici spetti la nomina dei principali dirigenti, ne rende complicata la gestione e fa si che il ricambio delle cariche sia frequente e dipenda più dal cambiamento delle maggioranze in Parlamento che da ragioni legate alle strategie editoriali. Non è infatti la prima volta che la politica allontana dalla Rai personaggi sgraditi. Questo si deve anche al fatto che la Rai è un’azienda pubblica e nel suo CdA sei membri su sette sono eletti dalla politica.
In ogni caso, dovrebbe sempre essere garantita la trasparenza e la pluralità del servizio pubblico.
Il governo Meloni e il difficile rapporto con i media
La fretta dell’esecutivo di cambiare i vertici Rai e sostituirli con altri politicamente affini, potrebbe essere visto quindi come un modo per avere un canale preferenziale di comunicazione, visti i difficili rapporti tra il governo e la stampa, soprattutto quella indipendente.
Secondo Reporters Sans Frontieres, per la maggior parte i giornalisti italiani godono di un clima di libertà. Ma a volte cedono alla tentazione di censurarsi, o per conformarsi alla linea editoriale della loro organizzazione, o per evitare una causa per diffamazione o altra forma di azione legale, o per paura di rappresaglie da parte di gruppi estremisti o criminalità organizzata.
Infatti, stando al recente Rapporto annuale sul diritto d’informazione 2023 del Consiglio d’Europa, “l’Italia non solo non ha depenalizzato la diffamazione, ma la sua nuova coalizione di governo ha dato la sua benedizione alle procedure giudiziarie per mettere a tacere chi la critica”. Il ministro della Difesa Guido Crosetto ha affermato senza mezzi termini che le condanne civili e penali siano gli unici metodi che capiscono editori, redattori e giornalisti di fronte alla diffamazione. La stessa Giorgia Meloni non è passata inosservata in Europa per aver proseguito la sua azione legale contro Roberto Saviano che nel 2021 aveva definito, lei e Matteo Salvini, dei “bastardi”, in riferimento alle loro posizioni sull’immigrazione.
Il rapporto continua sostenendo che il ricorso alla diffamazione gioca un ruolo non indifferente, dato che “giornalisti e media in Albania, Bulgaria, Croazia, Francia, Italia, Polonia e Serbia sono sempre più denunciati per diffamazione”. Per il Consiglio d’Europa, quindi, “minacce irragionevoli di azioni legali e azioni strategiche contro la partecipazione alla cosa pubblica sono ancora frequenti e contribuiscono a creare un clima di intimidazione e vessazioni legali”.
Il tema della fragilità dei media a causa del peggioramento del contesto economico, culturale e politico sembrerebbe essere una tendenza generale. Relativamente all’Italia, il segretario della Federazione europea dei giornalisti (EFJ) Ricardo Gutierrez, ha notato “un incremento delle violazioni della libertà di stampa, e si tratta di fatti certificabili, denunciati puntualmente sulla piattaforma del Consiglio d’Europa”.
Tra gli episodi più rilevanti, oltre a quello di Saviano, trascinato in tribunale dalla Premier, dal ministro Salvini e dal ministro Sangiuliano, si ricorda anche l’irruzione della polizia nella redazione di Domani con l’intento di sequestrare un articolo su Claudio Durignon, membro del governo Meloni. Gli autori dell’articolo, Nello Trocchia e Giovanni Tizian, si occupano di collusione tra politica e criminalità organizzata e per questo sono sotto scorta. Il loro lavoro dovrebbe quindi essere salvaguardato, invece che sequestrato. Lo stesso Gutierrez ha definito l’azione della polizia intimidatoria.
Intanto da Bruxelles si provano a contrastare le derive negative con la legge anti-SLAPP (Strategic Lawsuits Against Public Participation) e il Media Freedom Act, il problema, riporta Domani, è che a dover decidere delle sorti di queste direttive europee sono gli stessi governi che, come quello Meloni, attaccano i giornalisti con gli Slapp, cioè con cause vessatorie contro l’interesse pubblico.
Aurora Compagnone