Calcio. I giocatori più pagati non sempre sono i più felici

Fonte: ilpost.it

Il calcio moderno sempre più spesso torna al centro della ribalta mediatica a causa dell’enorme di giro di denaro che circola al suo interno. È innegabile che le enormi cifre che percepiscono alcuni giocatori o le somme spese per l’acquisto di giocatori blasonati come Neymar, scatenino i dibattiti più feroci e spingano tutti a dire la propria per manifestare il loro comprensibile sdegno.




Ma anche la gabbia d’oro più affascinante, desiderata, presenta delle crepe che a un primo sguardo non si notano perché attirati da tutto quello che di materiale possono assicurare somme di denaro così ingenti.

In fondo è più semplice trincerarsi dietro la facile congettura che il calcio sia solo quei 90 minuti, qualche allenamento durante la settimana e gli sporadici ritiri con la Nazionale. Ma non è così, soprattutto per chi gioca ad alti livelli e deve confermare le proprie prestazioni partita dopo partita, stagione dopo stagione, anno dopo anno.

Attenzione, questo pezzo non ha la pretesa di sostenere la pazza logica che spinge società, campionati a strapagare ragazzi che, in fondo, prendono solo a calci un pallone ma semplicemente vuole mostrare anche l’altro lato, quello meno analizzato: i sacrifici, quello che svendi per rimanere sulla cresta dell’onda, ciò che perdi e che non tornerà più indietro.




Le parole del difensore dell’Arsenal, Per Mertesacker, permettono di gettare uno sguardo anche verso l’altra faccia di uno degli sport più amati al mondo ma che a certi livelli perde tutto quello che lo confina a “gioco” e lo può trasformare in incubo.

Per Mertesacker il problema è che “I giocatori vengono valutati solo per le loro prestazioni. Non giochi più per divertiti: devi rendere, sempre, senza se e senza ma”. Proprio a causa di questo enorme carico di stress e pressione, lui prima di ogni partita ha frequenti conati di vomito e attacchi di diarrea.

Nei momenti che precedono la partita – ha dichiarato il giocatore dell’Arsenal- il mio stomaco gira come se dovessi vomitare. Devo soffocare questa sensazione così violentemente che poi iniziano a lacrimarmi gli occhi”.




Una percezione così distorta del calcio da spingerlo a sentirsi “sollevato” dopo la finale dei Mondiali persa con la Nazionale tedesca nel 2006, proprio contro l’Italia. “Ero dispiaciuto per l’eliminazione della mia squadra, questo sì, me lo ricordo come fosse oggi ma pensavo soltanto ‘è tutto finito, finalmente’”.

Proprio a causa di questo perenne senso di frustrazione e stress, Mertesacker ha deciso che dall’anno prossimo si ritirerà dal calcio: “Questo è l’ultimo anno in cui giocherò, non ce la faccio veramente più. Preferisco stare in panchina o meglio ancora in tribuna. Ma tra qualche mese sarò libero”. Una dichiarazione che la dice lunga sul modo in cui Mertesacker sta affrontando le ultime partite, una condizione quasi di disagio che l’Arsenal avrà intuito visto che in questa stagione il giocatore ha totalizzato solo 11 presenze fra tutte le competizioni.

Mertesacker ha intenzione di trasformare questi suoi anni di malessere continuo in qualcosa di buono. Il giocatore infatti l’anno prossimo diventerà responsabile dell’accademia dell’Arsenal e ha dichiarato, in maniera convinta, che farà di tutto per rendere più consapevoli i ragazzi sui pregi ma soprattutto sulle insidie che nasconde il mondo apparentemente patinato del calcio.

Non si faccia l’errore di considerare Mertesacker un caso isolato perché una testimonianza a sostegno della sua tesi, arriva anche da un altro giocatore molto famoso e che indossa anche la maglia di una delle squadre più amate al mondo, il Barcellona.

Stiamo parlando del centrocampista André Gomes che evidenzia, anche lui, il carico di tensione che non riesce ad affrontare positivamente durante le partite. Perché il problema non si pone quando bisogna allenarsi quotidianamente ma durante quei 90 minuti fatidici. Come infatti spiega Gomes, “in allenamento è tutto ok ma le sensazioni in partita non sono buone. Pensare non mi aiuta perché mi vengono in mente pensieri negativi e continuo a pensarci ancora, e ancora. Non parlo con nessuno, non do fastidio a nessuno come se mi vergognassi. Mi è successo di non voler uscire di casa, vergognarsi a uscire di casa non è bello…”.

Senza voler cadere preda di facili banalizzazioni ma testimonianze del genere dovrebbero spingere almeno a fermarsi un attimo così da non cadere vittime di facili entusiasmi quando si parla di cifre astronomiche e a chiedersi “Ma il calcio che conta è davvero solo scarpini personalizzati, festini, Lamborghini e sterzi placcati d’oro?”.

Dorotea Di Grazia

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