Dalla rinascita carioca con Pelè alle polemiche di Serbia-Svizzera, calcio e società sono sempre state profondamente collegate tra loro. La proteste “silenziose” dei calciatori e gli hashtag #BlackLivesMatter sulle divise delle squadre inglesi in seguito all’assassinio di George Floyd sono solo gli episodi più recenti in cui il calcio si è fatto portavoce di problematiche sociali o politiche. Alcuni esempi sono il sostegno dei tifosi del Barcellona alle istanze indipendentiste catalane o le esultanze provocatorie di due giocatori di origine kosovara nel match contro la Serbia. Ma, come in quest’ultimo caso, sono tristemente frequenti anche episodi violenti e antisportivi che infangano il vero spirito di questo meraviglioso sport.
Calcio, orgoglio e identità
L’indipendentismo catalano è una tematica cruciale sin dalla nascita del relativo nazionalismo nel XVII secolo. Accanto ai tumulti socio-politici dal Franchismo alla fine degli anni 90′, non è mai mancato l’appoggio del Barcellona ai movimenti pacifici per la tutela della cultura e dell’identità della Catalogna. Al minuto 17:14 di ogni partita casalinga, infatti, la tifoseria blaugrana urla a gran voce Independencia!, in memoria dell’anno in cui Filippo V conquistò la città ponendo fine alla sua autonomia. Un gesto simbolico che si ricollega al corteo di un milione e mezzo di persone che, l’11 settembre 2012, aveva sfilato per le strade di Barcellona in favore dell’indipendenza.
Al di là della rivalità con Madrid espressa durante “El Clásico” delle bandiere indipendentiste al Camp Nou, il gesto più forte dei catalani risale all’ottobre scorso. Dopo la condanna dei 12 leader promotori del referendum per l’indipendenza della Catalogna del 2017, il Barcellona ha espresso, attraverso un comunicato ufficiale, tutto il proprio disappunto per la sentenza. Il club di Bartomeu, storicamente schierato a tutela della libertà di espressione, ribadì con forza che “La risoluzione del conflitto in Catalogna deve essere raggiunta esclusivamente attraverso dal dialogo politico“, chiedendo, dunque, la scarcerazione degli imputati. Un atto che ha subito scatenato reazioni contrastanti su Twitter, da chi era d’accordo con la società catalana a chi condannava il comunicato e il tanto discusso referendum.
Una ferita ancora aperta
Sin dai primi del Novecento, i contrasti tra la popolazione albanese del Kosovo e la Serbia sono un tema scottante la cui soluzione sembra ancora lontana. Dopo i massacri che dal 1996 al 1999 sconvolsero la regione e i tumulti del 2005, la Repubblica del Kosovo ottenne l’indipendenza nel 2008. Nonostante il riconoscimento ottenuto dalla metà degli stati dell’ONU, non sono mancate le proteste della Serbia e di super-potenze mondiali quali Cina e Russia. Un evento di questa portata ha inoltre suscitato la preoccupazione di altri paesi alle prese con movimenti secessionisti interni come la Spagna e Cipro, impedendo loro di riconoscere ufficialmente la neonata repubblica. Le tensioni generate da questa situazione si sono velocemente ripercosse sul calcio in occasione di Serbia – Svizzera del 22 giugno 2018.
Nella fantastica cornice del Kaliningrad Stadium, la Serbia di Milinkovic-Savic si giocava con la Svizzera di Shaqiri un posto agli ottavi di finale del mondiale. Un’incornata vincente di Mitrović aveva acceso l’entusiasmo della temibile tifoseria serba dopo appena 5 minuti, ma una sassata da fuori di Xhaka ed il guizzo di Shaqiri in zona cesarini ribaltarono la partita. I due marcatori di origine kosovara esultarono mimando con le mani l’aquila bicipite, simbolo della bandiera albanese, proprio davanti alla curva serba. Una provocazione tanto discussa che distolse, purtroppo, l’attenzione dalla partita gettando inutilmente benzina sul fuoco. La Football Association of Serbia denunciò l’accaduto ottenendo una squalifica di 2 partite ed una multa di 10.000 franchi svizzeri per entrambi i giocatori. Belgrado condannò duramente anche le bandiere del Kosovo presenti allo stadio, considerandole un atto irrispettoso ed illegale. Passato l’entusiasmo per la vittoria e i goal, i due giocatori non rilasciarono dichiarazioni.
Dal cuore del Brasile al tetto del mondo, quando calcio e società rinascono insieme
Dopo l’inaspettata e tremenda sconfitta casalinga del Maracanazo contro l’Uruguay nel 1950, la nazionale carioca collezionò un altro cocente insuccesso contro l’Ungheria ai mondiali successivi. In un paese reduce dalla crisi economica degli anni ’30 e dall’era Vargas, delusioni di questa entità aumentarono i disordini ed il malcontento generale. La rinascita carioca era però all’angolo e sarebbe stata affidata ad un sedicenne di Três Corações che il mondo avrebbe conosciuto come O Rei.
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I mondiali di Svezia del 1958 rappresentavano l’occasione perfetta per il riscatto, nonostante i padroni di casa fossero i favoriti. Il Brasile, dopo aver a malapena superato la fase a gironi, batté il Galles e la Francia grazie alle prestazioni superlative di Pelé qualificandosi per la finale. Il giovanissimo numero 10 era tornato a disposizione di Vicente Feola proprio per i quarti di finale dopo un brutto infortunio. Il Råsundastadion di Stoccolma ospitava la finalissima in una piovosa giornata di fine giugno. I padroni di casa passarono in vantaggio con un’azione micidiale di Liedholm al 4′. La nazionale verdeoro, però, ribaltò rapidamente il punteggio con una doppietta di Vavá, concludendo il primo tempo in pareggio. Nella seconda frazione di gioco, la doppietta di Pelé (tra cui il golazo di sombrero al 55′) ed la ribattuta vincente di Zagallo ipotecarono la storica vittoria.
Alla fine della partita, la nazionale brasiliana sventolò un’enorme bandiera svedese in segno di rispetto per gli avversari, ricevendo gli applausi di tutto lo stadio. Fu una dimostrazione immensa di sportività e amore per il calcio. La notizia della vittoria arrivò via radio e in Brasile fu festa nazionale per una settimana.
Calcio, società e politica: lo sport prima di tutto!
Alcuni dei più recenti eventi sportivi hanno puntato i riflettori sull’eccessiva ingerenza della politica nel calcio. Un esempio è la controversa esultanza dei giocatori turchi dopo la vittoria sull’Albania ed il pareggio contro la Francia nell’ottobre scorso. L’UEFA ha aperto un’inchiesta sulla squadra allenata da Şenol Güneş a causa del saluto militare dei calciatori dopo le reti di Tosun e Ayhan nei due match. La decisione, fortemente criticata dallo stesso Erdogan, si affianca alle numerose critiche ricevute dal romanista Ünder e dallo juventino Demiral per i tweet a favore dell’intervento militare turco in Siria. Non è neppure mancata l’indignazione sui social di alcuni ex-giocatori quali Claudio Marchisio, che ha sottolineato l’importanza di non lasciar correre. Ma quanto è giusto prendersela con i singoli giocatori considerando l’incredibile dipendenza dello sport in Turchia dal governo di Erdogan?
Pochi sanno, infatti, che il governo turco ha contribuito economicamente alla crescita del settore sportivo nazionale, soprattutto a livello delle singole società. E proprio questa sudditanza dello sport (del calcio soprattutto) e della società nei confronti dello stato rende difficile condannare i singoli atleti in situazioni simili. Anche se non necessariamente d’accordo con il regime, molti sono infatti costretti ad uniformarsi per non perdere il proprio status sociale e professionale. Un’influenza analoga è evidente anche in Brasile, dove le diverse tifoserie organizzate, calciatori e stelle del calibro di Ronaldinho si scontrano per supportare Bolsonaro o i suoi oppositori.
Ma fino a che punto è giusto che il calcio (e lo sport in generale) sia continuamente promotore delle tematiche più roventi della società contemporanea?
Alessandro Gargiulo