Continui litigi in chat o sui social, sovraccarico informativo, fake news… Tutte sfide alle quali siamo quotidianamente sottoposti, nel mondo iper-connesso e digitale in cui viviamo. Eppure nessuno ci insegna come affrontarle. Per questo, Bruno Mastroianni (filosofo, docente di Comunicazione e social media manager) ha elaborato la disputa felice. Un metodo che insegna a trarre il buono da ogni discussione, ma anche una vero cammino di ricerca della virtù. Per scegliere chi vogliamo essere in una discussione, come nella vita.
Ne La disputa felice (Franco Cesati Editore, 2017), si parte dal presupposto che oggi “la diversità, che prima era un’esperienza specifica della vita, è diventata un aspetto ordinario della realtà”. In che modo è cambiato il nostro rapporto con il diverso, rispetto al passato?
La relazione con la differenza caratterizza da sempre la vita dell’uomo, in tutte le epoche. Anzi, il cammino è proprio quello dell’uscita dalla tribù, dal gruppo dei simili, per andare verso gli altri, i diversi. E questo ha sempre portato, da un lato, a maggiori opportunità (maggiori conoscenze, informazioni, scambi di idee e merci…); dall’altro, a dei rischi, come la perdita o la messa in discussione della propria identità.
La svolta digitale ha aumentato questa capacità di noi esseri umani di trovarci in relazione con il diverso, sia da un punto di vista quantitativo che qualitativo.
Mentre un tempo si entrava in relazione con il diverso per motivi di lavoro o studio, oggi dobbiamo tutti imparare a farlo. A cominciare, per esempio, con le polemiche del nostro pubblico social, per quanto piccolo: gestire venti commenti a un post da parte di persone con diversa provenienza, estrazione sociale e culturale, cinquant’anni fa poteva avvenire solo organizzando un dibattito ad hoc.
Ognuno di noi deve dunque imparare a comunicare col diverso. Ma nessuno, per esempio a scuola, ci insegna come farlo. In che modo si potrebbe porre rimedio a questo vuoto formativo?
È necessario, secondo me, lavorare sempre di più sul pensiero dilemmatico. A scuola, nelle attività di formazione, passare da un modello di lezione frontale ad un modello dilemmatico di disputa: imparare ad acquisire conoscenze mettendole alla prova proprio di fronte al dissenso e alla differenza con l’altro. Un’iniziativa a cui partecipo è la Palestra di botta e risposta, che organizza attività di dibattito tra i ragazzi, sia all’interno delle scuole che negli orari extra-scolastici. I ragazzi sviluppano la capacità di sostenere la propria opinione di fronte agli altri; ricercare fonti attendibili a sostegno della propria tesi; ascoltare il modo in cui gli altri formulano le loro opinioni, per poi riformulare le proprie. Il sogno, per me, sarebbe trasportare questa dinamica dialettica e dilemmatica dentro l’ordinarietà della didattica.
Una didattica di messa alla prova delle idee più che di accumulo delle idee è molto più efficace per il cittadino, perché lo prepara alla messa alla prova continua che sarà la discussione iper-connessa.
Bisogna porre in dubbio le conoscenze immediate, andando oltre la conoscenza sensibile per capire dietro cosa c’è. Per farlo ci si deve allenare al dubbio, al dissenso, alla contraddizione costruttiva che porta ad acquisire delle conoscenze che non si dimenticano più. Ci sono già molti insegnanti in Italia che adottano questo metodo, e sono eroici in questo perché spesso non hanno le risorse adeguate.
Noi abbiamo bisogno di cittadini che abbiano conoscenze maturate tramite la contraddizione e non da una memoria di qualcosa detto da qualcuno ritenuto autorevole.
Uno dei pericoli nella trasmissione del sapere è trasmetterlo per autorità. Questa è la dinamica del manipolatore, che guadagna la fiducia di coloro che lo seguono, diventando, così, autorevole ai loro occhi. Noi dobbiamo formare cittadini che mettano in dubbio proprio le informazioni che giungono dalle persone in cui ripongono più fiducia. Questo è il vero antidoto contro la disinformazione: anche di fronte alle persone in cui riponiamo fiducia, porsi una domanda. E questo è proprio il compito della filosofia.
Spesso, sui social, ci troviamo inondati da una grande quantità di informazioni. E questo è difficile da sostenere anche a livello psicologico. Persino i giovani, nati nell’era digitale, sembrano non sostenere la sfida e si prendono delle pause dai loro profili social o partecipano poco. Per quale motivo accade questo?
Sul web il sovraccarico è triplice. Il primo è informativo: la quantità di informazioni che continuamente ci bombardano. Il secondo è di tipo valutativo: la serie di giudizi che subiamo. Per esempio, anche una storia su instagram riceve giudizi in maniera quantitativamente e qualitativamente più intensa rispetto alla vita fisica. Infine, il sovraccarico di discussioni: discutiamo molto di più online, rispetto a quanto possiamo farlo dal vivo.
Questo triplice sovraccarico digitale porta la nostra mente e la nostra emotività a volersi sottrarre. Ma questa non è una risposta efficace e applicabile sul lungo termine, nella vita quotidiana.
Magari da giovani ci si può permettere di scomparire dal web, ma quando si cresce anche dal punto di vista professionale curare la nostra presenza digitale, essere reperibili, scegliere con cura ciò che si pubblica sono aspetti importanti. Bisogna trovare un modello più sostenibile di presenza online, capace di ridurre il sovraccarico.
E, per rispondere alle sfide della comunicazione online, hai elaborato il metodo della disputa felice. In cosa consiste?
Nella disputa felice si selezionano le discussioni a cui partecipare e anche le valutazioni da subire, traendone vantaggio. È una strada faticosa, però realizzabile e secondo me realistica. È un po’ idealistico pensare di potersi sottrarre del tutto ai social tutte le volte che vorremmo. Molto più realistico è affrontare la sfida e imparare a gestire le polemiche, scegliendo le giuste interazioni, che possono anche aiutarci a migliorare la nostra condizione personale. Questo richiede un cammino di formazione e di autodisciplina su sé stessi.
Uno dei poteri più forti è il lasciar cadere, ignorare. Perché a volte le cose che ci colpiscono di più a livello emotivo sono quelle a cui è meglio non dare seguito.
Lasciar cadere una polemica sterile è un atto nobilissimo che aiuta sé stessi e anche chi sta attorno. Anche cogliere le critiche valide è un atto virtuoso. Ognuno deve sentire la responsabilità di come raccoglie le interazioni che ha attorno.
Il concetto di disputa felice potrebbe apparire contraddittorio. Tendiamo a dare alla disputa un’accezione negativa e a pensare che sia qualcosa da evitare. Com’è possibile che una disputa possa essere felice?
È normale, è giusto che noi preferiamo il consenso al dissenso. Vogliamo essere amati, avere conferme, essere circondati da persone che ci somigliano. Questo è sano e importante da avere. Ma può valere per certi ambiti, come per la famiglia, per gli amici. Abbiamo infatti anche bisogno di essere messi alla prova, di scoprire qualcosa di nuovo.
La disputa felice serve proprio nell’incontro col diverso, ad affrontare il momento del dissenso, che è sempre spaventoso perché compromette il nostro mondo sicuro.
Appena emerge un dissenso ci rendiamo conto che il nostro modo di vedere il mondo non è l’unico, ce n’è almeno un altro e poi infiniti ancora. Inoltre, questo dissenso non arriva nelle forme più gentili, educate che vorremmo. È irrealistico pensare di poter discutere solo se l’altro è educato e usa parole gentili. La disputa non è dunque gentile, ma felice. È volta, cioè, a vedere il bene superiore che si può trarre anche da una situazione deteriore.
Come cogliere il valore che si può trovare in ogni discussione, anche quella apparentemente più litigiosa?
Intanto, ad essere felice è il disputatore. La questione non è solo sugli argomenti e come vengono trattati, ma su chi vuoi essere nella discussione. Il disputatore felice nella discussione vuole trarre il maggior bene possibile dalle parole dell’altro, anche quando sono scomposte.
La disputa felice cerca di mantenere, di fronte al dissenso, il merito della questione e di vedere nella differenza di opinioni un’occasione, una grazia. Usando una parola antica, ma attualissima, possiamo parlare di una ricerca della virtù.
Ci spostiamo quindi su un piano più elevato rispetto a quello del dibattito in sé. Si ignorano le polemiche per valorizzare gli argomenti. Questo è faticoso. Scontrarsi porta un’immediata soddisfazione ma alla fine ognuno torna a casa com’era prima. La disputa felice, invece, sul momento richiede uno sforzo maggiore, ma può dare la soddisfazione di capire qualcosa di più su sé stessi e sugli altri. Se ci confrontiamo tra noi e mettiamo alla prova le nostre idee fino in fondo, perlomeno torniamo a casa con una migliore concezione di quello che pensiamo, pur rimanendo con opinioni diverse.
Questo stare nella differenza è alla base della società plurale.
Ma la parte più importante della disputa felice è la moltitudine silenziosa. Quando disputiamo con qualcuno anche aggressivo, e non perdiamo la pazienza e accettiamo il confronto senza raccogliere le polemiche, facciamo un atto molto più grande di quello che pensiamo. La moltitudine silenziosa, nel vedere il disputatore felice all’opera, può recuperare fiducia nell’umanità. Si tratta quindi di un atto di comunicazione che può portare a un cambiamento nella realtà, anche se avviene online.
Quindi la disputa felice può portare dei benefici anche a livello politico e sociale?
La società plurale richiede che noi siamo in grado di costruire relazioni nella differenza, non soltanto nella somiglianza o nell’omogeneità, perché quello produce solamente contrapposizioni continue tra tribù o fazioni omogenee.
Bisogna imparare ad uscire dalla propria tribù di appartenenza per entrare in quella dell’altro e capire qualcosa in più.
Si fa un passo ulteriore, rispetto alla mera questione di arrivare sempre ad un consenso. Questo ha anche un ruolo politico: come cittadini possiamo avere opinioni diverse, ma continuare a vivere in uno spazio comune. Il rischio è invece una tendenza della comunicazione in cui conta solo il consenso che poi diventa contrapposizione verso l’altro e non articolazione del dissenso con l’altro. Finisce che non avviene neanche più il confronto. Ci troviamo di fronte a tribù, sacche di consenso contrapposte ma che non si contraddicono nemmeno più. Questo rende meno proficuo lo schema della società plurale, che invece ha nelle differenze una sua ricchezza enorme.
Come comportarsi, a livello pratico, di fronte al sovraccarico informativo a cui assistiamo online?
Ogni cittadino può fare il minimo possibile: non accontentarsi del primo effetto che hanno i contenuti su di noi. Di solito, la prima relazione che stabiliamo con un contenuto è una relazione di pro/contro. Sono a favore o contro rispetto a quello che sto leggendo? Prima di capire se sono pro/contro, è necessario chiedersi invece che cosa stiamo leggendo.
Possiamo applicare la regola dei venti secondi: dedichiamo venti secondi in più di fronte a un contenuto che ci si propone come conoscenza già preconfezionata.
Quando dobbiamo acquistare qualcosa su internet, o per esempio prenotare un viaggio, facciamo un molti ragionamenti, perché dobbiamo usare i nostri soldi, e i soldi hanno un valore che riconosciamo. Ecco, dovremmo spendere tempo per la conoscenza tanto quanto ne spendiamo nell’usare i nostri soldi. Farsi raccontare una parte del mondo in modo manipolato, da un’informazione sbagliata, vale molto più di 50, 100, 500 euro, perché stiamo accettando di vedere il mondo da un’ottica non completa. Di fronte ad un’informazione, invece di avere quella spontanea tendenza di credere di padroneggiare la materia, dovremmo mettere in pratica il metodo filosofico: vedere se c’è qualcosa che manca. Chiediamoci cosa manca, cosa c’è che non torna. Sono tutte azioni minime, e anche se non portassero il cittadino a capire com’è davvero la realtà, ma solo a farsi una domanda in più, sarebbe tantissimo.
Come possiamo, invece, agire noi stessi sul web per non inquinare il dibattito?
Già evitare di condividere, mettere un like troppo facile, sparare un commento senza averci troppo riflettuto ripulisce molto l’ambiente relazionale che creiamo online. È già un contributo stare fermi ed aspettare di capire meglio le questioni. Torniamo sulla questione di virtù: avere un “habitus”, un’abitudine di comportamento, che se allenato ci porta a comportarci così abitualmente.
E poi, il web ci dà due grandi privilegi: poter rileggere prima di postare, e confrontare prima di capire.
Sono operazioni che nel giro di un minuto, un minuto e mezzo si possono fare. Infatti, grazie alla la multimedialità, se sto fruendo di un contenuto su una pagina, posso andare a fare confronti aprendone simultaneamente delle altre. Anche solo una ricerca su Google a volte ci salva da errori in cui caschiamo tutti, facendoci prendere dal sentimento.
Ne La disputa felice insegni come evitare il litigio, ma cosa bisogna fare se il litigio è già in corso?
Questa è l’obiezione che mi è stata posta alla disputa felice. Ed è un’osservazione giusta. Ne La disputa felice delineo soprattutto i comportamenti per evitare il litigio, mi focalizzo meno su come affrontarlo quando è ormai esploso.
Di questo parlerò nel mio prossimo libro, in uscita a ottobre 2020: Litigando si impara. Dall’odio online alla disputa felice, sempre per Franco Cesati Editore.
Quindi parto da un processo inverso: mentre ne La disputa felice parlo di tutti gli accorgimenti per evitare di litigare, nel nuovo libro parto dal litigio già avviato per chiederci se si può fare ancora qualcosa per uscirne, per disinnescarlo e portarlo a una discussione. Così come sbagliando si impara, se traessimo conoscenze dai litigi, cioè dalle nostre discussioni fallimentari, impareremmo molto sul discutere.
Giulia Tommasi