I braccianti dell’Agro Pontino che riempiono di frutta e verdura l’Europa

Braccianti dell'Agro Pontino

La tragedia di Satnam Singh riporta l’attenzione sul sistema del caporalato nel settore agricolo italiano.
Una piaga che riguarda, in particolare, l’Agro Pontino

I braccianti dell’Agro Pontino, e di tutta l’Italia, rischiano di fare la fine di Satnam Singh?

Questa è la domanda che l’opinione pubblica ha sollevato dopo la tragica morte del bracciante indiano 31enne. Il quale, dopo un grave incidente sul lavoro che gli ha causato la mutilazione del braccio, è stato abbandonato dal suo capo di fronte casa, insieme alla moglie, senza allertare i soccorsi. Lasciando il braccio tra i secchi dell’immondizia lì vicino, in una cassetta della frutta.

Il raccapricciante episodio ha spinto i sindacati a organizzare una grande manifestazione a Latina, alla quale hanno preso parte oltre 5000 braccianti e lavoratori delle aziende agricole dell’Agro Pontino.

Ma la questione, soprattutto in quest’area del Lazio, non è nuova. Da anni, i sindacati denunciano lo sfruttamento di un “esercito di schiavi“.
Migliaia e migliaia di braccianti, costretti a lavorare in nero, per 10/14 ore di fila, con una paga di 3/4 euro all’ora, per portare sulle nostre tavole tonnellate di frutta o verdura coltivata.

Tra questi, Satnam Singh è solo l’ultima e più conosciuta vittima.

I braccianti dell’Agro Pontino e il sistema del caporalato

Nell’Agro Pontino, zona agricola a sud est di Roma, l’attività più redditizia è la coltivazione di frutta e verdura.
Si tratta di un’area della provincia di Latina che si estende dal canale “acque alte”, noto anche come canale Mussolini, tra i comuni di Cisterna e Latina, fino ai monti Lepini e Ausoni.
La sua conformazione, la fertilità del suo terreno e le bonifiche contribuirono a far diventare l’Agro pontino una delle aree italiane a maggior concentrazione di imprese agricole.

Tutto ebbe inizio verso la fine degli anni ’80, quando giunsero nel Sud Italia migliaia di stranieri, perlopiù indiani di religione sikh.
Negli anni ’90, l’immigrazione dei sikh in Italia si fece più consistente, portando alla nascita di piccole comunità collocate soprattutto presso: Brescia, Cremona e Bergamo in Lombardia; Reggio Emilia, Parma, Modena in Emilia-Romagna; Vicenza in Veneto; e Latina nel Lazio.

L’arrivo di migliaia di giovani uomini stranieri, in cerca di un lavoro e di una casa, diventò subito un’opportunità di sfruttamento della manodopera per le aziende agricole intenzionate a sfruttare in modo intensivo le fertili terre dell’Agro Pontino. Prese quindi vita il sistema del caporalato.

Il processo inizia nel Punjab, in India, dove sono presenti intermediari in contatto con caporali in Italia o direttamente con le aziende agricole. I quali, in cambio di viaggio, alloggio e posto di lavoro, possono arrivare a chiedere anche 20.000 euro. Indebitando, praticamente a vita, i migranti.

Tra gli intermediari, le indagini hanno rilevato: il “caponero, che organizza le squadre e il trasporto; il “tassista”, che gestisce il trasporto; il “venditore”, che predispone le squadre e la vendita di beni di prima necessità a prezzi spesso molto alti; l’”aguzzino”, che utilizza sistematicamente violenza o provvede alla sottrazione dei documenti di identità, in maniera tale da ottenere un controllo totale sul migrante; il “caporale“, ovvero l’amministratore delegato; l’”uomo fidato“, che gestisce per conto dell’imprenditore l’intera campagna di raccolta dei lavoratori.
In conclusione, i sinkh si trovano quindi costretti a a lavorare in condizioni comparabili con la schiavitù, tramite un contratto irregolare (lavoro grigio), o senza (lavoro nero).

Proprio grazie a questo sistema che garantisce una manodopera quasi gratuita, la provincia di Latina è il primo produttore europeo di kiwi.
Inoltre, proprio tra Latina e Fondi si trovano due tra i centri di smistamento di ortofrutta più importanti d’Europa, dove vengono stoccate, lavorate e vendute tonnellate di frutta e verdura.

Frutta e verdura, dai braccianti dell’Agro Pontino alle nostre tavole

Secondo un’inchiesta diretta da Irpimedia, tra le imprese finite sotto indagine c’è la multinazionale neozelandese Zespri. Leader nel settore dei kiwi, solo dall’Italia ottiene il 10,5% della sua fornitura totale.
Un’enorme quantità, proveniente in gran parte dal lavoro dei braccianti sikh del Punjab. Ma, come afferma Laura Hardeep Kaur, sindacalista della Flai Cgil di Latina, non è possibile conoscere i numeri reali.

Difficile conoscere il numero esatto degli operai agricoli impiegati nella raccolta perché spesso si lavora in nero

Intanto, Zespri ha dichiarato di aver avviato un’indagine per rilevare irregolarità e chiederne conto.

Ma le multinazionali coinvolte, consapevolmente o meno, nel sistema dello sfruttamento, sono molte. Questo perché, oltre a richiedere tonnellate di prodotti a basso prezzo, le grandi distribuzioni impongono tutte le spese extra (promozioni, sconti, prodotti non idonei) ai fornitori.

Di conseguenza, le aziende agricole massimizzano i profitti tramite lo sfruttamento.




Nel 2020, un giovane indiano 30enne, Jobandeep, si è suicidato dopo aver lavorato per un anno e mezzo presso l’Azienda agricola Gianni di Girolamo. Sulla società ha indagato, di nuovo, Irpimedia.

È molto difficile trovare persone disposte a parlare delle condizioni di lavoro all’interno di questa azienda, un po’ per paura di ritorsioni, un po’ perché i lavoratori migranti si spostano molto, e quelli che in passato hanno avuto il coraggio di parlare, si sono tutti allontanati, sia per tornare in patria, sia per lavorare con diverse aziende in altre zone d’Italia

Si tratta di una delle aziende più produttive dell’area, e particolarmente impegnata nell’export.
Soprattutto in Germania, ma anche in Sudamerica, Nuova Zelanda e nei Paesi scandinavi.
Per esempio, il discount tedesco Aldi Nord importa indirettamente il suo cavolo rapa. Tra gli altri clienti, anche Edeka e Lidl.
In risposta all’indagine di Irpimedia, le tre catene tedesche hanno risposto di essere impegnate nel rispetto degli standard ambientali e delle leggi a protezione del lavoro.

Su 7000 aziende dell’Agro Pontino, solo 200 hanno firmato il Protocollo di Legalità

Il sistema di sfruttamento dell’Agro Pontino è sotto indagine da quasi un decennio (2016).
Eppure, delle 7.000 imprese presenti nell’area, solo poco più di 200 hanno aderito al Protocollo di Legalità.
Un Protocollo che serve, in primo luogo, per coadiuvare i governi nella lotta alla corruzione, garantendo trasparenza nei processi decisionali. Inoltre, ha la funzione di osteggiare le infiltrazioni mafiose che, in maniera diretta o indiretta, attraverso imprese e società controllate, condizionano le attività economiche e finanziarie nei settori pubblici. Tra questi, soprattutto quello agricolo.

Per firmare il protocollo, è necessario che le aziende superino un primo test, che non è comunque da intendersi come assoluta garanzia. Per quanto riguarda le attività che, invece, non hanno firmato, non è possibile trarre conclusioni legate alla criminalità.

Secondo i dati ufficiali, sono oltre 10.000 le aziende agricole nella provincia di Latina. Qui, lavorano circa 10.800 lavoratori a tempo determinato, e poco meno di mille a tempo indeterminato. Ma il numero effettivo dei lavoratori, secondo i sindacati, arriverebbe tra i 25mila e i 30mila.
Quasi il doppio, dunque, sono braccianti senza contratto.

Giulia Calvani

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