Massimo Giuseppe Bossetti è stato condannato in due gradi di giudizio per l’omicidio di Yara Gambirasio, la 13enne di Brembate di Sopra. La scomparsa di Yara avvenne il 26 novembre del 2010. Bossetti venne arrestato il 16 giugno del 2014. Quasi quattro anni dopo il ritrovamento del corpo senza vita della giovane ginnasta, nel campo di Chignolo d’Isola, poco distante dal luogo della scomparsa, la palestra dove Yara si allenava.
La prova che, a dire dell’accusa, inchioda il muratore di Mapello, sarebbe una traccia di DNA nucleare (quella che riconduce alla linea paterna) rinvenuta sugli slip della 13enne. Per la difesa questa stessa traccia è anomala perché non contiene la parte mitocontriale (la linea materna) del DNA. L’accusa sostiene che la piccola sia sempre rimasta nel campo di Chignolo, esposta quindi alle intemperie. Il pool difensivo crede, invece, che la giovane vittima sia stata spostata in un secondo momento.
Le dichiarazioni di Alfano
Al momento dell’arresto di Bossetti, l’allora ministro dell’Interno Alfano dichiarò alla stampa che era stato catturato l’assassino di Yara Gambirasio. Questo ancora prima che il presunto colpevole entrasse in aula. La dichiarazione di Alfano, come riporta anche La Repubblica del 17 giugno 2014, creò non poche tensioni alla Procura che tramite il procuratore Francesco Dettori rilasciò la seguente dichiarazione:
Era intenzione della Procura mantenere il massimo riserbo sul fermo Bossetti, questo anche a tutela dell’indagato, in relazione al quale, secondo la Costituzione, esiste la presunzione di innocenza
L’ex ministro Alfano poche ore dopo tramite twitter, dopo che la sua prima dichiarazione aveva già percorso lo stivale da capo a punta, precisò che: la presunzione d’innocenza vale per tutti.
Il caso Bossetti: una questione di DNA
Un inizio mediatico piuttosto burrascoso.
Il caso di Yara Gambirasio, anzi il caso Bossetti, ha avuto una rilevanza incredibile sin dall’inizio. Forse perché la scomparsa della ragazzina di Brembate avveniva dopo soli 3 mesi da quella di Sarah Scazzi, la 15enne di Avetrana. L’Italia si è spaccata in due: innocentisti e colpevolisti. Il caso di cronaca nera è entrato in tutti i salotti, anche quelli più frivoli, ed è stato dibattuto da personalità competenti così come da personaggi meno informati. Le telecamere in aula erano vietate. In primo appello anche le registrazioni.
Questo ha fatto sì che si creasse un alone di mistero intorno allo svolgimento del processo e non sempre le informazioni sono trapelate nella maniera più corretta. Non sarò certo io a dare rivelazioni inaspettate, o a fare clamorosi scoop. Ma è giusto che si parli di questo caso perché in ballo non c’è solo la giustizia per una giovane ed innocente vittima di soli 13 anni, non c’è solo la vita di un muratore condannato all’ergastolo. C’è un concetto fondamentale che va chiarito: l’uso del DNA nei processi.
Quanto può valere questa prova se non circostanziata? Qual è il significato giuridico della formula spesso usata “oltre ogni ragionevole dubbio”?
I processi si fanno in tribunale
Il caso di Massimo Bossetti, innocente o colpevole che sia e a stabilirlo sarà la legge, potrebbe aprire un nuovo scenario nella giurisprudenza italiana ed internazionale in merito all’utilizzo del DNA e a quanto questa prova possa realmente contare nell’ambito di un processo. Se la scienza è per lo più impeccabile, ricordiamoci sempre che gli scienziati sono uomini e come tale passibili di errori. Quanto le prove scientifiche potranno sostituire quelle tradizionali ed investigative e discostarsi da esse?
La Cassazione si esprimerà in merito a Massimo Giuseppe Bossetti il 12 ottobre.
Nel diritto e nella procedura penale, la presunzione di non colpevolezza è il principio secondo cui un imputato è innocente fino a prova contraria. In particolare, l’art. 27, co. 2, della Costituzione afferma che «l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.
Marta Migliardi