Scaramoush, Scaramouch, will you do the Fandango!
Sfida accettata; Bohemian Rhapsody nelle sale!
Sembra passato un giorno dall’annuncio ufficiale che i “noi” devoti al verbo semio-musicale dei Queen attendevano da anni: un film sulla vita e la storia di una delle più grandi rock band di tutti i tempi e del suo Guru che per ora chiameremo semplicemente Farrokh Bulsara.
Chi si aspettava o temeva l’ennesimo biopic narrativamente storpiato sull’ennesima rockstar maledetta, sarà stato fortemente impressionato da una miriade di aspetti che rendono questo film una meravigliosa esperienza visiva e musicale.
Gli eccessi di Bohemian Rhapsody rappresentano un valore aggiunto alla potenza della storia, che cerca di seguire filologicamente il magnetismo e il carisma del suo protagonista, ma la sua origine risale a circa 10 anni fa.
Fu Brian May ad annunciare, durante un’intervista, la preparazione di un film sui Queen, prodotto da lui e dal batterista Roger Taylor. Da lì piccoli accenni cominciano ad attirare l’attenzione pubblica su chi avrà l’enorme responsabilità di interpretare quel giovane nato a Zanzibar che da lì a poco rigetterà la sua identità zoroastriana per diventare “Sua Maestà” Freddie Mercury.
Il primo candidato doveva essere Sacha Baron Cohen (Borat), ma le divergenze con la produzione e l’immagine che l’attore si era ritagliato non furono ritenute idonee. Nel frattempo nasce il problema della regia; pur essendo stata affidata a Brian Singer, gran parte del lavoro venne completato da Dexter Fletcher, il quale però non è stato citato nei credits del film.
Nonostante la lavorazione travagliata Bohemian Rhapsody è riuscito a sbancare il botteghino e a sollecitare un dibattito molto acceso sulle numerose licenze poetiche nei confronti della vita di Freddie Mercury e della carriera dei Queen, che cercano però di restituire un pathos naturale alla storia e dove le stesse inquadrature sapientemente utilizzate riescono a dare ritmo e enfasi al filo conduttore del film: l’immenso carisma della band inglese.
Dietro l’impeccabile interpretazione di Rami Malek, c’è il disegno di una responsabilità, non scritta, nel rispetto del personaggio, ma anche nelle aspettative che i milioni di fan del Mercury hanno riposto per quanto riguarda l’aderenza al personaggio.
Questo fa si che sia stato necessario e anche ragionevole che a parlare fosse la musica originale dei Queen e non una sterile interpretazione che avrebbe fatto saltare su dalla poltrona i cultori più fanatici.
La ragione è motivata non dal solito fanatismo istituzionale sul culto dell’artista, ma perché quando si parla di Freddie Mercury si entra in un terreno minato: l’eccelso talento vocale e creativo è di per sé troppo difficile da riprodurre e, sebbene in alcuni passi Malek sia riuscito molto bene anche a intonare alcuni versi, ha dimostrato una grande maturità nel concentrarsi su un altro aspetto molto difficile, che è la presenza scenica.
Il magnetismo fisico e gestuale immortalato durante il Live Aid del 1985, dimostra come la cura per ogni dettaglio scenico e attoriale sia stato eseguito alla perfezione: pensare a come quell’evento storico sia stato riprodotto così fedelmente, fino a disporre i bicchieri sul pianoforte allo stesso modo, è impressionante.
Bohemian Rhapsody racconta l’avventura della band inglese dall’incontro tra il giovane Farrokh, May e Taylor, passando per i primi successi, i tour mondiali e gli eccessi edonistici del Freddie degli anni ’80.
In questo biopic la musica è al centro e tutto intorno alla vita dei personaggi e almeno due dei tre punti importanti di questa storia sono stati rispettati: la passione per l’opera e la nascita del capolavoro che da il titolo al film.
L’amore di Mercury per la musica lirica è stato un punto cruciale nella carriera dell’artista, racchiuso in quella perla (purtroppo non orchestrale) che è Barcelona con la grande Montserrat Caballé. Purtroppo la dimensione temporale del film non ha permesso di introdurci nella gloriosa anche se ultima fase della sua carriera, ma l’opera compare in diversi momenti del film, come un sottofondo discreto e presente che condizionerà il linguaggio poliedrico dei Queen e di cui, Bohemian Rahpsody ne è l’esempio più completo. Un brano che si distacca dalla forma canzone per abbracciare da lontano la forma sonata, con un’ouverture corale; una ballata e una serie di scherzi che saltano reboanti, tra canoni polifonici e accordi ostinati, che diventano un treno a overdrive per chitarra, emblema dello stile unico e perfetto di Brian May.
Per ogni scena c’è uno strumento insolito aggiunto, un Galileo ripetuto fino al soffocamento e un insieme di richiami esoterici che sembrano intrecciare introspezione e pentimento; fino a che tutto diventa un fandango.
Nel suo crescendo corale il film cerca di stabilire un percorso cronologico lineare, ma inevitabilmente cade anche su una serie di errori e imperfezioni storiche che hanno fatto storcere il naso a molti. Il primo riguarda l’origine del rapporto fra i futuri membri, canalizzata nella prima formazione di Brian May e Roger Taylor, gli Smile e la prima band di Mercury che però non viene citata. La prima e unica fidanzata Mary Austin non conosceva gli Smile e non si allontanò mai da Freddie Mercury.
Uno degli aspetti più criticati a Bohemian Rhapsody è il fatto di aver incentrato l’incrinatura del rapporto fra Mercury e i Queen, in seguito alla volontà del primo di fare un disco solista: ma sia May sia Taylor avevano già realizzato degli album solisti. Lo sfasamento temporale fra la fase edonista di Mercury e gli anni di Radio Ga Ga e ancora prima di Under Pressure, testimoniano uno scioglimento che non è mai avvenuto, né fu smentito in seguito al Live Aid, anche perché stava per nascere “A Kind Of Magic”.
Il personaggio di Ray Foster, interpretato dal “fuso di testa” Mike Myers, che nel film sembra omaggiare il celebre film che lo ha reso famoso nel 1992, con la frase: “nessuno scuoterà la testa in macchina ascoltando questa roba”, forse avrebbe meritato una caricatura in meno; se non altro perché prima dei Queen, aveva prodotto The dark Side of the moon, dei Pink Floyd.
L’enigma del successo del Live Aid
Molti hanno lamentato l’eccessiva attenzione dedicata nel film allo storico evento di Bob Geldof, accusando Bohemian Rhapsody di non rendere giustizia a tutti i grandi musicisti che si esibirono quel giorno a Wembley.
L’intento forse voleva essere un altro: ossia la storica esibizione dei Queen fu indubbiamente un evento, non solo per gli stratagemmi veri o presunti riguardo i volumi più alti, ma per sottolineare ancora una volta il grande magnetismo dorato di questo artista, capace di smuovere e commuovere una platea di 100.000 persone al gesto di:
“All we hear is, Radio Ga Ga!”
La durata della scena riproduce quasi integralmente quei 20 minuti di fuoco, ma è proprio in quei momenti che la tensione emotiva dello spettatore raggiunge l’estasi: quando viene preso e scaraventato tra la folla, sul palco e lungo i cavi, per far vivere un ‘esperienza multidimensionale unica; il culmine di una serie di momenti pieni di enfasi, durante il quale le corde dell’anima faticano a tenere il fiato in gola e anche qualche lacrima.
A questo punto poco importa sapere quando egli rivelò la malattia alla band o il perché John Deacon appare quasi sullo sfondo visivo, mentre il suo basso vibrante sorregge gran parte del tessuto acustico di Bohemian Rhapsody.
L’esigenza di realizzare un prodotto “pulito” e senza allusioni scandalistiche, fa si che Bohemian Rhapsody riesce a interpretare la grandezza dell’intera band, che ha avuto una guida tanto imponente, quanto gigantesca è l’ombra che aleggia su chiunque ascolti ancora oggi e dopo 27 anni dalla sua morte, la voce e lo spirito di Freddie “Farrokh Bulsara” Mercury.
Fausto Bisantis