“Non vogliamo la body positivity, vogliamo la body indifference”: quella che ci faccia smettere di guardare gli altri corpi commentandoli con la nostra consueta tiritera di troppo magro, troppo grasso, troppo alto, troppo basso. La moda di lusso è la fiera dell’ipocrisia, tra i defilé omologati e l’ufficio marketing che si spertica in elogi all’accettazione di sè. La vera strategia difensiva è solo una: quando la smetteremo di essere così ossessionati dal nostro corpo e da quello degli altri?
Si è appena conclusa la Fashion Week di Milano e in passerella si sono visti i soliti corpi magrissimi che, in barba a tutte le nuove linee guida dell’inclusività, mostrano un solo tipo di corpo possibile. Allo stesso tempo, però, sottolineare che queste modelle sono troppo magre implica che l’inclusività sia prevista solo verso un certo tipo di categoria: quello dei corpi con forme più morbide. Spesso, quindi, cadiamo nell’errore opposto. Puntiamo il dito contro i corpi più ossuti e, pur non sapendo nulla della storia clinica di una persona, delle sue abitudini, delle analisi e della sua salute, diciamo che quel corpo pelle e ossa non è accettabile. Punto: perché lo abbiamo deciso noi e un giorno abbiamo girato l’interruttore dell’accettabilità.
Inclusione a metà
Ora: l’inclusione è tale solo se avviene a 360° e se coinvolge tutti. Bassi, alti, magri, grassi, muscolosi, flaccidi, snelli, robusti, rossi, bianchi, gialli, neri. Le nostre passerelle, in questi giorni, hanno dimostrato di essere semplicemente dei defilé di ipocrisia. Non perché per tutto il resto dell’anno inneggino all’accettazione di sè, all’empowerment e alla non discriminazione per fare cassetto e poi in passerella portino solamente modelle taglia 40. Non perché queste modelle siano molto magre. Ma semplicemente perché questo tipi di show propongono un solo modello di persona e di corpo standardizzato.
Altro che body positivity
Esattamente come avveniva nelle serie tv degli anni 90, quando sulle spiagge di Santa Monica c’era spazio solamente per bagnini snelli e tonici, possibilmente bianchi. L’unica curva che si vedeva era il seno di Pamela Anderson. Le altre attrici, come ha sottolineato Edoardo Mocini dal suo profilo Instagram in un approfondimento di questi giorni, erano considerate magre, ma non andavano esenti da critiche, come quelle dell’eccessiva mascolinità.
Eppure l’errore rischia di essere ancora una volta quello di puntare il dito contro quei corpi magri: no, la critica non riguarda la scelta di un cast snello, ma la selezione di un cast unicamente snello. Monodirezionale. Orientato solamente a far capire al pubblico che un solo tipo di corpo sia accettabile.
La rappresentazione come permesso di esistere
Se pensate che davanti alla tv, esattamente come il dottor Mocini, c’eravamo anche noi, si capisce subito la portata del danno sulla nostra infanzia e adolescenza. È stato un martellamento costante: le ragazze di Non è La Rai erano tutti modelli di bellezza standard, più o meno uguale a quello del più giovane ed estivo Veline, per la selezione delle vallette (SIGH!) di Striscia la notizia. E cosa sono i media se non la rappresentazione artificiale di ciò che esiste? O, meglio, la selezione certosina di ciò che è presentabile? Se non vieni raffigurato, tu grasso, basso, alto, magro, mascolino, effemminato, allora non esisti: se non vieni preso in considerazione, è perché non sei presentabile. Questo urlavano i palinsesti degli anni Novanta e dei primi Duemila: così come lo gridavano i videoclip, i reality show, le pubblicità. Non solo nei loro protagonisti principali, ma anche nelle comparse che apparivano nelle retrovie.
L’influenza sull’immaginario
La cosa che mi chiedo spesso, da adolescente degli anni Duemila, è questa: quanto ha influito la tv che ho guardato, con i telefilm a cui mi sono appassionata e le pubblicità di cui ho colto distrattamente qualche fotogramma, sul mio modo di vedere il mio corpo e i corpi degli altri? Come ha forgiato il mio immaginario? Come ha influenzato la mia capacità di accettare le differenze senza associare a un certo corpo un giudizio moralistico? E, soprattutto, quanto è differente il mio immaginario da quello dei bambini che crescono davanti ai media di oggi?
La body indifference
Un’altra questione, infatti, si fa largo prepotentemente tra le argomentazioni. Se l’ideale di bellezza fisico è sempre esistito sin dall’antichità, non è minimamente paragonabile rispetto al vero e proprio bombardamento che oggi subisce chi si mette anche solamente un’ora al giorno davanti allo smartphone.
È inutile poi che tutto il carrozzone del marketing venga a tentare di vendermi un rossetto con lo slogan patinato della body positivity e dell’accettazione di te.,Dire “via le magre dalle passerelle” è una sonora sciocchezza. Ma dire “accettati come sei, l’importante è che compri”, forse, lo è ancora di più. La domanda vera è un’altra: quando smetteremo di essere così ossessivamente attaccati alla forma del corpo di chi ci parla, di chi vediamo sui social o incontriamo per strada? Forse quando la body positivity avrà finalmente lasciato il posto all’accettazione dell’eterogeneità. O quando l’omologazione avrà ceduto il passo alla multirappresentazione di quante più combinazioni umane possibili: allora non sarà più body positivity, sarà body indifference.
Elisa Ghidini