Bocche da sfatare. Dell’utilità della colpa e dell’espiazione
Nell’imperfetta economia che caratterizza la convivenza civile esistono degli elementi comuni, non direttamente legati a regole scritte né ascrivibili al buon senso, anche se va riconosciuto sono talmente “incarnati” nel nostro sentire da sembrarci “sacrosanti”. Per grosse e rozze linee possiamo elencarne due: il senso di colpa e la consequenziale vocazione a sacramentarsi all’espiazione.
Sembra che mi piaccia vincere facile! In fondo tutti generalmente “riconosciamo” la deleteria influenza di queste “due cose”; anche perché da più di un secolo la psicoanalisi e l’influenza “adattata” ai nostri frenetici tempi delle discipline orientali ci martellano l’anima sul conflitto tra un perduto e irraggiungibile sentire puro e originario e la prigionia di una coscienza sfalsata, nella quale si sono sedimentati comportamenti ed errori ereditariamente radicati, da chi o da cosa ci è dato sospettarlo ma non saperlo.
Insomma passiamo la nostra esistenza a sentirci obbligati a un cammino di “liberazione” e già questa diffusa sensazione, omogeneamente spalmata in tutti noi, dovrebbe destare quanto meno qualche sospetto.
Oddio la butto lì… ma non è che proprio quegli elementi di cui vogliamo liberarci, e cioè il senso di colpa e il conseguente moto all’espiazione, sono gli ispiratori di questo presunto cammino? Qualcuno potrebbe rispondermi che se anche fosse così non è detto che sia un male, anzi: se la colpa e l’espiazione ci indirizzano verso un percorso di “miglioramento” sono spesi bene.
Va bene. Ottimo ragionamento! Non è un sillogismo di prima figura ma fila. Però scusate se insisto, la domanda di fondo resta: dov’è scritto che bisogna liberarsi? Chi ci ha intimato in maniera così perentoria e dogmatica che l’uomo necessiti di un cammino “liberazione” per migliorarsi?
Adoro chi mi premette che per arrivare dove è arrivato ha fatto un “percorso”, e senza previo consenso mi elenca tutta una trafila di esperienze più o meno “forti” e traumatiche, ovviamente degne di rispetto e non meritevoli di nessuna ironia, altresì adoro chi “ammira indiscriminatamente” coloro che sono stati “forgiati” dal doloroso crogiolo dell’ indifferente crudeltà della vita. Tutti noi siamo un po’ così: chi più e chi meno restiamo moralmente ammirati “dai segnati” e li eleggiamo ad esempi. Per carità comprensibilissimo … ma perché è così? Perché è appunto comprensibilissimo? Perché questa naturale propensione ( si fa per dire!) ad eleggere a modelli di vita le esistenze martirizzate? Anzi, spesso succede l’opposto: persone davvero segnate raramente fanno pesare il loro vissuto, né intendono far germogliare negli altri una sorta di ammirata quanto impietosita inferiorità, una sorta di patetica sudditanza malcelata da partecipata ammirazione… se ne guardano bene. Eppure noi protendiamo verso questi bari del dolore che ci incatenano a loro come delle crocerossine innamorate dalla compassione. Tutto questo da cosa dipende?
Più che una risposta ho una carrellata di immagini. Da quando siamo stati cacciati dall’Eden, e ci è stato detto che suderemo e partoriremo con dolore, non abbiamo fatto altro che combattere con tutte le nostre forze per restare fuori dal paradiso terrestre. Non c’è immagine d’arte sacra, di estasi o conversione che non trasudi dolore ed espiazione. Persino il coito (consensuale e gradito si intende!) è intriso da una drammaticità spesso “fuori luogo”.
Siamo riusciti ad “occidentalizzare” persino l’oriente in questo modo … riducendo a categorie solo nostre una visione dell’essere umano a noi totalmente opposta. Più che comprendere siamo abituati a colonizzare facciamocene una ragione. Non abbiamo bisogno di leggere i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio di Machiavelli per rendercene conto.
In fondo l’idea che Siddhartha fosse un principe felice e ricco e che, dopo questa botta di culo, si sia pure tolto lo sfizio di diventare il Buddha ci ha sempre un po’ fatto girare i coglioni. Troppo perfetto, lineare, senza pathos o drammaticità. Non ci piaceva l’idea che un uomo sereno e felice volesse che tutti gli uomini fossero sereni e felici. No, la sua felicità rispetto al dolore del mondo l’abbiamo dovuta tramutare in una sorta di personale senso colpa (secondo noi). No, non poteva essere solo pura e nuda “compassione”, ci voleva altro! Quella fortuna doveva esser espiata in qualche modo. Quindi siamo giunti alla conclusione che un minimo di vita di merda il principino viziato la doveva fare.
Ci è difficile accettare che la sete di sapere, di sentire, di amare, di accogliere sinceramente possano essere frutti spontanei, il risultato di un pensiero sereno e vivo … no!, guai pensare che l’amore possa essere anche innato, un dono offerto al mondo – perché inesauribile – da sensibilità uniche. Non possiamo crederci! Altrimenti dovremmo prendere in considerazione l’eventualità che la stragrande maggioranza dell’umanità sia sostanzialmente composta da carogne! E il cerchio non si chiude mai!
Cristo non poteva essere un uomo felice che desiderava con tutto se stesso la felicità di tutti, no… doveva nascere una grotta “al freddo e al gelo”, molto improbabile per un discendente della casa di Davide a sua volta figlio (putativo) di un artigiano riconosciuto e quindi anche benestante, se no col ciufolo Maria gli andava in sposa visto che era figlia di sommi sacerdoti. Quindi scordatevi un’infanzia felice e una vita serena. Ma scherziamo? Gesù non poteva che avere una vita fatta di stenti e sacrifici.
E tutto questo solo per le loro esistenze, affinché le “loro” esperienze siano per noi la dolorosa conferma che i sacrifici portano a migliorarci.
E sulle “grandi morti” che dire allora? Ah qui c’è da scialarsi! Abbiamo a disposizione un infinito un capitolo di dolori da aprire. Un archivio dell’autolesionismo collettivo che comprende anche tutta la tradizione greca e l’idea che i buoni sono sempre i primi a crepare. Ma allora lo vogliamo anche noi! No?
Signori i reality non sono una novità, ma solo l’ultima – e artisticamente svuotata rappresentazione – di un immaginario che manifesta ancora una volta la nostra pervicace volontà a mantenerci fuori dall’Eden. Dramma e realtà si confondono e si modellano tra loro da sempre con il contrito beneplacito di tutto l’umano!
I martiri ci servono da sempre, sono fondamentali! Che siano fittizi, eroici o reali non conta, ci servono! Ci servono quando sono vivi per ricordarci che la vita è dolore e sacrificio, che i momenti belli durano poco e che – in fondo – non li meritiamo, perché restiamo peccatori, e altresì poco conta se siamo atei, credenti, agnostici, adoratori del rosmarino, confratelli della venerea chiesta dell’ “Ammazziamoci in gruppo dandoci fuoco nel Texas”, il radicato senso del peccato resta e in qualche modo lo dobbiamo espiare.
Ma non finisce qui… perché martiri ci servono ancor più da trapassati. Eh sì! Che li vogliamo buttare così? Li possiamo santificare, li mettiamo nei libri di storia morti e sepolti così ci fanno anche la sacrosanta cortesia di non romperci più le palle. Sono lapidi, giorni della memoria, periodi di festa e di vacanze. Diventano i soggetti di opere d’arte e, non ultimi, esempi di vita irraggiungibili e per questo anche dei modelli etici perfetti – non riusciremo mai ad essere come loro, quindi nell’ammirazione possiamo anche rilassarci perché “affrancati” rispetto a loro dalla nostra effimera e normale quotidianità. I grandi morti sono utili anche come monito, eh già! In fondo ci ricordano che “se ci facciamo i cazzi nostri campiamo meglio e più a lungo”, mica vogliamo fare la loro fine? Ci accontentiamo di ammirarli come santini, come delle preci… fidatevi, ci conviene!
Quanto ci piace il senso di colpa, quanto ci serve convincerci di doverlo espiare. E quanto sono buoni i martiri! Sono un po’ come il maiale … di loro non si butta via niente! Ne conserviamo pure le ossa!