Quanto coraggio ci vuole a dire al proprio simile: “ho bisogno di te”? Ci vuole tutta la forza di questo mondo e forse non basta. Perché quando viene il momento di farlo, quando ti trovi faccia a faccia a colei o a colui che potrebbe renderti più felice anche solo qualche ora di qualche giornata, ci si paralizza e vorremmo fosse qualcun altro a farlo al posto nostro.
Forse solo nello stato della follia riusciamo ad esprimere con sincerità il nostro bisogno dell’altro. Solo laddove siamo accettati come “diversi” e ci sentiamo giustificati dalla nostra troppa debolezza dal fatto stesso di trovarci nella condizione di malati: lì riusciamo a dire “ho bisogno di te”. Come lo diceva, anzi, lo scriveva Alda Merini allo psichiatra Enzo Gabrici, che la seguì prima durante i ripetuti ricoveri della poetessa all’ospedale psichiatrico “Paolo Pini” di Affori e poi come paziente “esterna” negli anni successivi. Alda Merini ci lasciava sette anni fa, il 1 novembre 2009. Aveva dato voce agli ultimi e messo in versi il “folle” bisogno di amore di ogni anima.
Si paragona a un uccellino, la poetessa milanese, in una bellissima lettera al medico del manicomio: un uccellino che chiede aiutoa colui che può guarirla eppure sa che l’altro non potrà comprendere fino in fondo le ragioni del proprio dolore, del proprio soffrire.
“Lei non può sapere da uomo cosa significa sentirsi palpitare dentro un altro cuore, sentirselo proprio per dei mesi, donarsi ed essere continuamente gratificata da questo amore nuovo che sorge”, scrive la Merini al suo medico, al quale non chiede di capire, di interpretare, spiegazioni scientifiche. Chiede solo di essere ascoltata. Implora al suo medico di farsi prossimo.
Alda Merini si fa voce di tutti gli scartati, i messi da parte, che prima di ogni altra cosa, prima di ogni soccorso materiale e spirituale, chiedono di essere presi in considerazione. E’ questa la prima cosa che cercano le anime ferite, le anime sole. Cercano un medico come il Dottor G. che non le tratti come numeri, che non le riservi minuti incalzati dalle suonerie di cellulari o dalle lancette di un orologio. Cercano un cuore che si metta in ascolto dei battiti di un altro cuore. Cercano, per dirlo con le parole della Merini, di “parlare con un angelo, qualche cosa che solo a me è dato di vedere e di sentire, qualche cosa di incorporeo che non ammette alcun desideri”. Il medico avrebbe soddisfatto tutte le richieste della sua paziente semplicemente ascoltandola “passando con lei ore di calda fiducia, penetrando nel suo animo come un padre”.
Ma quale soluzione può portare un angelo incorporeo? Dove si arriva soltando con l,’ascolto, senza soluzioni tangibili? Anche la potessa sapeve bene che non certo il medico poteva essere la soluzione ai suoi mali. Non potevano essere le medicine delle quali non aveva alcuna fiducia perché “quando una cosa non si prende con quella fiducia che occorre non ha nessun risultato”. Solo la fede poteva guarirla dalla sua malattia dell’anima, ma “per avere questa fede dovrei sentirmi amata e invece anche questa mattina mio marito non è venuto da me”. Il medico non poteva nulla. Solo il marito, scriveva allo psichiatra, “con un cenno, un assenso, un atto di comprensione potrà guarirmi ed è proprio in questa direzione che io vorrei dirigerla”.
Nelle righe scritte dalla poetessa, l’estrema fragilità chiede di essere curata con i gesti più semplici, quelli che nella quotidianità sembrano addirittura insignifcanti. L’anima malata domanda ascolto, comprensione, accoglienza. E sa che solo l’amore potrà guarirla. E lo dice senza schermi o mezze misure. Con quella istintività e naturalezza che forse solo nei manicomi, chiamati dalla poetessa “poemi di amore e morte”, può sopravvivere. Fuori da quelle strutture è così difficile domandare amore, forse ancora più di riceverne. Eppure basterebbe un cenno, un atto di comprensione, per iniziare ogni giorno un nuovo percorso di cura. Una cura dell’anima quotidiana fatta “di piccoli gesti che ci fanno stare bene”, “di amore disinteressato e generoso, che non chiede nient’altro che essere compreso e apprezzato”.
Nelle pagine di Alda Marini, leggiamo come solo nella follia si “elemosina” senza porsi problemi di decoro o soggezione. Tra la follia e la normalità del quotidiano, di chi sta dalla parte più debole di questa umanità
Salvatore D’Elia