E’ di ieri la sentenza “che fa storia”. Anzi, le sentenze, emesse dalla Corte di Cassazione e dal Tribunale civile di Roma. Se la ex moglie parla male del papà ai figli, deve poi risarcire costui dei danni subiti.
E’ successo a una mamma, la quale ha parlato con odio dell’ex marito ed ingenerato pertanto la Pas – la sindrome da alienazione parentale – nella figlioletta. Le radici di un simile passo avanti nella civiltà di coppia affondano in un’altra sentenza, stavolta del tribunale di Mantova – poi confermata in Cassazione -, che condannava un’altra ex moglie a risarcire sia l’ex marito che la figlia.
Deprecabile mettere in mezzo a lotte senza esclusione di colpi proprio i figli, la cui innocenza sarebbe da tutelare ma che si finisce col ledere. Senza dubbio, tutto vero. Ma il “parlar male” è forse la punta dell’iceberg di una questione un po’ più annosa: il diritto alla bigenitorialità, tutelato ad ogni ordine e grado, che sostanzialmente si traduce in una bigenitorialità spesso fittizia. Ci sono uomini che impazziscono di gioia, alla notizia di una imminente paternità. Altri impazziscono del tutto e basta. Alcuni vivono la gravidanza in simbiosi con la propria compagna. Altri realizzano di essere diventati padri con calma, mesi dopo la nascita del pargolo. Tutti, o quasi – perché un argomento così delicato non meriterebbe generalizzazioni capaci di banalizzarlo – affetti da quella maledetta sindrome del “padre peluche”, forse preferibile all’antico archetipo del “padre padrone”, ma pur sempre lacunosa e mancante di pilastri fondamentali che la paternità dovrebbe mantenere.
Tutti abbiamo bisogno di un padre, che sia biologico o meno, come riferimento per la normatività. Ci serve cioè da piccoli, per sperimentare ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Ci serve misurarci con i propri limiti e solo la pragmaticità paterna ci può condurre verso questi importanti orizzonti della crescita, sottraendoci momentaneamente all’iperaccudimento materno.
Ma c’è davvero ben poco da fare, sull’altare della sacrosanta bigenitorialità il papà latita! Se però si scende di qualche gradino, si può scorgere in un angolo la propria prole divertita mentre gioca col proprio fratello maggiore…ops, no. Non è il fratello maggiore, è il papà che non ha ben compreso le sconfinate possibilità pedagogiche ed educative del proprio ruolo, limitandosi a quello – più semplice – di pilota di macchinine, addestratore di draghi e mago dei selfie da mandare al gruppo whatsapp dei compagni di bisbocce serali. Per tutto il resto – dal cambio pannolino, alla pappa, ai no e alle regole – c’è la mamma. Sempre più stressata e assalita da sensi di colpa per un presunto disturbo bipolare – “sono normativa o sono affettiva?…sono mamma o sono papà?” – la mamma cerca di tenere il passo, restando ferma nel suo compito di “muro del pianto” quando il bambino ne ha bisogno, passando per “str*nza” quando c’è da porre un limite e contenere i capricci e destreggiandosi tra le esigenze non di uno, bensì di due bambini, uno dei quali lo ha però partorito la suocera.
Forse la colpa è di quei corsi e di quelle convinzioni antiche poi sovvertite, che hanno portato a una condivisione estrema del codice materno. I nuovi papà peluche lo hanno interiorizzato al punto da adagiarsi tra i giocattoli dei pargoli, certi del fatto che due mamme sono troppe. La “bimammità” che ha preso il posto della “bigenitorialità” non può non avere ripercussioni sul rapporto di coppia. Un equilibrio che si rompe e in cui va almeno salvaguardato quello dei nostri figli, ma anche qui noto con sommo rammarico come anche le modalità di tutelare il proprio rapporto con la prole siano radicalmente cambiate. Il papà, quando non gioca lavora. E lavora a ritmi sempre più vorticosi, precari e a latitudini ampiamente dilatate. Ma il papà deve pur sempre essere disposto ad attraversare le fiamme per un figlio. E invece? Sempre più papà liquidano la ex compagna con un lapidario “ti mando i soldi, se nostro figlio vuole sentirmi sa dove trovarmi”, certi della natura digitale di questi nuovi nati.
Accantonata la tenerezza del gioco, resta il divismo dell’uomo in carriera. Talmente fragile nel proprio ruolo da cercare certezze dal proprio figlio. Una volta, queste certezze era proprio il padre a garantirle. Se si distoglie l’attenzione dall’anima martoriata del padre moderno, vittima non solo delle proprie insicurezze, ma anche di uno sbandamento valoriale senza precedenti, ci si concentra sui figli: comunque orfani di padre.
E’ qui, su questo punto specifico, che fa rabbia il passo avanti nella civiltà di coppia. Perché è dovere della madre tutelare il buon rapporto tra figlio e padre. Ma quando la mamma rincorre un padre che non vuole fare il padre, che dovere ha in quel caso? E quando un padre altri non è se non un soggetto maltrattante, quale aspetto di un malsano rapporto la mamma deve tutelare esattamente? Quel sillogismo che vuole la bigenitorialità come sinonimo di equilibrio perfetto non funziona sempre. A volte è tossico e non occorre neanche elencare le numerose vittime di femminicidio, per mano di ex coniugi che non accettavano una separazione. Alla stessa maniera, i figli di vedove per fortuna non sono tutti pazzi o delinquenti. Ma rimane il fatto – sacrosanto – che è giusto che una mamma paghi per aver parlato male del papà. Quando ci saranno sonore multe per ogni “put*ana!” che ogni buon papà ammutinato rivolge baldanzoso alla mamma bigenitoriale?
Alessandra Maria