Di Carlo Valentini
Come sarebbe il festival di Cannes senza il tappeto rosso? Simile alla Biennale d’architettura senza gli archistar. Mancano appeal e star system ma non è detto che sia un male. Questa 15esima edizione (fino al 27 novembre nelle due aree dell’Arsenale e dei Giardini, ingresso 25 euro, chiusa il lunedì, sponsor: Rolex, Artemide, Japan Tobacco International, Vela, Laminam, Ferrovie dello Stato) va controcorrente e prende di petto i problemi che agitano le società di oggi. E’ la Biennale dell’architettura postindustriale: in che modo costruire/recuperare senza consumare il territorio, quali sono le modalità con cui coniugare il rispetto dell’ambiente con le nuove tecnologie di gestione degli edifici, come elaborare un’architettura dell’accoglienza in grado di rispondere alla sfida dell’immigrazione?
Quindi non ci sono luci del varietà: il curatore, il cileno Alejandro Aravena, ha preferito un bagno di umiltà che piacerà certamente a Papa Francesco. Ha intitolato il cuore della biennale “Reporting from the front”. Dice: “Si può parlare di fronte in riferimento alla guerra, alla povertà, alla legalità. Con cui l’architettura oggi deve fare i conti. Infatti il problema dell’architettura è quello di capire le forze in gioco e come queste forze possano determinare la forma dei luoghi”.
Aggiunge Paolo Baratta, presidente della Biennale: “Vi sono realtà tragiche e altre banali che sembrano segnare la scomparsa dell’architettura. Ma anche segni di capacità creativa e risultati che inducono alla speranza”.
Il leit motiv è che negli anni 80 l’architettura voleva strabiliare e appagare, oggi è riflessiva e sobria. Non a caso la mostra centrale si intitola “Conflitti dell’era urbana” e il suo curatore Ricky Burdett afferma: “Negli ultimi 25 anni la crescita delle città ha raggiunto proporzioni e ritmi senza precedenti. Ogni ora più di 50 residenti si aggiungono alla popolazione di città come Kinshasa e Dhaka. L’esigenza di costruire città per due miliardi di persone nei prossimi 25 anni offre la grande opportunità di pianificare e fare le cose per bene creando spazi per la crescita che verrà oppure di farle male imponendo soluzioni rigide”.
Il padiglione Italia è in linea con questo trend minimalista. Si intitola “Progettare per il bene comune” ed è stato curato da Massimo Lepore, Raul Pantaleo e Simone Sfriso. Propone una visione fortemente sociale dell’architettura, 20 progetti di riqualificazione delle periferie e di risposta alle emergenze. Poi vi sono i padiglioni allestiti dalle 65 nazioni. Tra essi: gli Emirati Arabi Uniti con le case sha’abi (popolari), gli Stati Uniti con la riproduzione in scala di edifici con notevole dose di fantasia (The architectural imagination), l’Inghilterra con una singolare abitazione in grado di cambiare nel tempo al modificarsi delle esigenze di chi vi abita, la Spagna coi grandi edifici rimasti incompiuti (“Unfinished”) per colpa della crisi, Israele che propone un edificio costruito sul modello di un nido d’uccello, l’Austria che con un azzardo (se si pensa al muro del Brennero) espone una funzionale tendopoli per rifugiati, la Francia con un padiglione intitolato “Nuove ricchezze”, ovvero “luoghi ordinari- dicono i curatori, Frèderic Bonnet e Marc Bigarnet- dei quali si parla poco ma dove molti di noi passano, abitano o lavorano. Dei luoghi banali, dove avvengono però delle trasformazioni, un nuovo edificio pubblico si installa, una nuova passeggiata si costruisce. Occasioni per creare nuove ricchezze, lontano dai grandi flussi finanziari o dai contributi della grande committenza pubblica”.
Nel fuorisalone: un omaggio a Zaha Hadid (palazzo Franchetti, Campo Santo Stefano 2847), duecento progetti firmati da istituti universitari (in tre sedi: Palazzo Bembo, San Marco 4793, Palazzo Mora, Cannaregio 3659, Palazzo Rossini, San Marco 4013), l’architettura cinese ospitata all’università Iuav (Santa Croce 1957), la Nuova Sarajevo all’Arsenale Nord ( Tesa 99), infine la curiosità di un inusuale progetto di una metropoli orizzontale (Isola della Certosa).
Infine, oltre la Biennale: Palazzo Grassi ospita Sigmar Polke, le foto di Helmut Newton sono alla Casa dei Tre Oci (Giudecca), la mostra al Peggy Guggenheim (Dorsoduro 701) è Imagine, ovvero l’arte italiana degli anni 60, quella al museo Correr è Ippolito Caffi, tra Venezia e Oriente 1809-1866.