Avete presente quegli influencer che usciranno piuttosto malconci da questa pandemia? Magari perché senza la vita mondana il loro profilo ha perso la maggior parte dell’attrattiva, oppure perché l’interessato ha scritto, letto e filmato dichiarazioni un po’ scivolose in un periodo delicato? Ecco, uno di questi influencer in declino è sicuramente Beppe Sala, il sindaco pop riformista di Milano.
Il primo cittadino del capoluogo lombardo Beppe Sala, ultimamente, sta arricchendo il suo curriculum vitae con una serie di dichiarazioni a dir poco zoppicanti. Se prima era una figura amata dai suoi concittadini, espressione dell’operosità del capoluogo lombardo, capace di essere istituzionale senza cadere nell’aridità del formale, con una sensibilità particolare verso i giovani, l’ambiente, i diritti civili, ora in molti assistono ai suoi video con un’espressione che va tra lo sbigottito e il “Sala, posa il fiasco”.
Tra errori scusabili e scivoloni veri
Condannare il sindaco pop per quello che ha detto a inizio pandemia, quando la situazione non era chiara per nessuno, sarebbe facile e fuorviante. Beppe Sala, in questo contesto, aveva rilanciato un video con lo slogan “Milano non si ferma”. Era il 27 febbraio, dovevano ancora arrivare le cifre spaventose e i lockdown veri e propri. Qualche settimana dopo, infatti, a Che tempo che fa, Sala aveva ammesso di avere sottovalutato l’importanza delle restrizioni e della prudenza. E non è stato né il primo né l’ultimo. Tutti i politici, a febbraio, hanno contribuito ad alimentare la confusione, rendendo il dibattito tra apertura e chiusure, azioni impopolari e azioni comode, il solito circo mediatico sterile e, in questa occasione, pure dannoso.
Il sindaco pop che striglia i suoi concittadini
Fin qui, però, la comunicazione Sala reggeva ancora. Un errore può capitare e i milanesi hanno saputo essere clementi e comprensivi. La confusione in ambito scientifico, le notizie non chiare che arrivavano da Pechino, l’incredulità di fronte a una pandemia in una società che ha nella fatturazione il suo credo e nell’aperitivo il suo rito hanno permesso di stendere un velo sulle dichiarazioni di tutti. Assodata la necessità delle restrizioni, il cortocircuito comunicativo di Beppe Sala è arrivato con le prime riaperture. Ha iniziato in simpatia: l’8 maggio si è definito “incazzato” per il comportamento irresponsabile delle persone sui Navigli senza mascherina. Ha strigliato i milanesi, dando loro un ultimatum: o vi comportate a modino o richiudo tutto. Il video ha fatto sorridere molte persone: viva Sala, viva il pugno di ferro, viva il sindaco simpatico e giovane che dice le parolacce.
Il sassolino nella scarpa sul turismo
I veri problemi sono iniziati dopo. Quando si è cominciato a parlare di turismo e di apertura delle altre regioni ai viaggiatori lombardi, Sala non ci è andato piano. Solo 20 giorni dopo le foto dei Navigli, il 27 maggio, su Instagram il sindaco ha concluso il suo intervento dicendo “Quando deciderò dove passare una vacanza me ne ricorderò”. Pur senza citarle, il riferimento era alle regioni del Sud Italia, ree di essere preoccupate per la provenienza dei turisti e, di conseguenza, per la capienza delle terapie intensive delle proprie strutture ospedaliere. In molti si sono schierati a suo favore, mentre tanti altri hanno descritto il passaggio come infantile e populista, molto lontano dalla pacatezza di Sala.
La questione Montanelli
Altra bufera sul caso Montanelli, per il quale ha realizzato due video. Si è schierato a favore del mantenimento della statua, tirando in ballo il timore del revisionismo e il fatto che Montanelli fosse un giornalista “libero e indipendente”. Ha detto però di essere rimasto disorientato quando ha sentito l’intervista in cui confessava di avere preso in moglie una dodicenne durante la guerra in Etiopia. Insomma, tutte belle parole di condanna al razzismo e alla misoginia, anche se nell’aria iniziava ad aleggiare un “ma” di una certa dimensione. Per Sala la statua si deve tenere, oppure bisogna iniziare a considerare tutte le personalità a cui sono dedicate piazze, vie e scuole di Milano, controllare parole, opere e omissioni armati di Tuttocittà e Wikipedia, e sostituirle. La questione Montanelli è sicuramente molto delicata, nessuno lo mette in dubbio, perché ci costringe a fare i conti con i simboli, con i nostri simboli. Non con quelli Oltreoceano che sono più spendibili su Instagram, ma non impegnano. Sala, che ha fatto dell’apertura uno dei concetti chiave del suo brand, ha reagito in modo benaltrista e a mente sprangata.
“E’ ora di tornare a lavorare”
Ieri l’ultimo post che ha suscitato un polverone: il sindaco Sala ha infatti pubblicato un video piuttosto claudicante. Con un paternalismo un po’ ottocentesco, Sala sollecita: “Milanesi, è ora di tornare a lavorare”. La frase non è sicuramente delle migliori: cosa significa infatti “tornare”? Lo smart working a cui tanto strizza l’occhio la sinistra riformista non è vero lavoro? E’ forse un passatempo? O il sindaco Sala è caduto nel cliché un po’ provincialotto del “telelavoro uguale cazzeggio? Lasciamo scorrere il video: magari ora si spiega meglio.
L’Italia è ancora una Repubblica “fondata sul lavoro”?https://t.co/rGkp8PwL42
— Beppe Sala (@BeppeSala) June 19, 2020
Ehm, no
No: la situazione precipita drammaticamente, l’intervento non è più recuperabile. Sala parla di numeri e statistiche, con gli italiani a fare da fanalino di coda per numero di anni lavorati in Europa. Tira in mezzo il timore per l’“effetto grotta“, la Repubblica fondata sul lavoro e in un modo singolarmente allusivo a un certo punto ci mette un “Prendiamo lo stipendio e poi…”, con una pausa, se possibile, ancora più allusiva. Un po’ come a dire che in questi mesi lo stipendio è stato una gentile concessione, ma che adesso bisogna tornare a fare sul serio e che la ricreazione è finita.
L’acquario dei dipendenti
Ora: le questioni in ballo sono numeorose. Bello l’ambientalismo, bella la gestione famigliare, bello il traffico diminuito. Ma si traducono anche in meno gente che si muove sui mezzi, meno persone che frequentano ristoranti e locali per la pausa pranzo, meno gente che paga il parcheggio non spostando l’auto dal garage: dati di fatto che un sindaco che amministra una città frenetica come Milano deve tenere presente. Il business degli affitti per studenti e lavoratori, se non fosse più richiesta la presenza fisica in aula o in ufficio, crollerebbe drammaticamente. Bene? Male? Il punto non è questo. Il messaggio che Sala sta facendo passare è sbagliato da qualsiasi punto di vista ed è espressione di quella concezione di Panopticon aziendale per cui, se il dipendente non sta con il fiato del capo sul collo tutto il santo giorno, troverà sempre il modo di non fare una mazza. Se il problema è l’effetto domino negativo che il telelavoro ha su certi settori, sarebbe più onesto intellettualmente sollecitare i propri cittadini a utilizzare i mezzi se vanno a trovare un amico o a ordinare il pranzo tramite i servizi delle consegne.
Forse un po’ naif, certo, ma almeno non allusivo né fuorviante. Si può essere o non essere d’accordo sul fatto che la socialità e il lavoro in presenza non vadano eliminati al 100%, ma non si può parlare di “Tornare a lavorare”, dopo tre mesi in cui la gente si sta spaccando la schiena per tenere sotto lo stesso tetto un ufficio, un asilo e un ristorante.
E’ che a noi la preistoria piace
Incredibilmente, nella tragedia che ha colpito il Nord Italia, il coronavirus ha permesso di intravedere una possibilità di lavorare e guadagnare in modo più sostenibile. Secondo molti, lo smart working è stato addirittura più produttivo, proprio perché dentro di noi la concezione aziendalistica della sorveglianza ci ha fatti sentire inspiegabilmente in dovere di dimostrare qualcosa in più, come a dire: “Oh, sono a casa, ma ti faccio vedere che non ti rubo lo stipendio”. E invece no: secondo Sala bisogna tornare a lavorare e per lavorare si fa riferimento esclusivamente a quell’affascinante e preistorico rito del procacciarsi cibo fuori dalla caverna. E’ lavoro solo se si guida nel traffico e si fa la pausa pranzo al centro commerciale, crogiolandosi nel burn out e fantasticando sulla macchina da comprare per andare a lavorare.
Errori di comunicazione e basta?
A questo punto, però, la domanda è lecita: Beppe Sala pensa davvero le cose che dice? Sono errori di comunicazione o c’è forse un problema di contenuti, non social ma politici? E’ questa la sinistra riformista in Italia? In tempi di deleghe social a team di consulenti ed esperti, anche i sostenitori del sindaco dovrebbero essersi accorti del cortocircuito di fondo. Si fa presto a fare i sindaci pop, quelli che strizzano l’occhio alla modernità, che mettono i calzini arcobaleno per celebrare i diritti civili, che si fanno chiamare Beppe e dare del tu, che sono contro il razzismo se è dall’altra parte dell’oceano, che usano bene gli hashtag, che incrementano i follower. Se poi, però, si toglie la patina social, quello che resta rischia di essere una concezione ottocentesca della società e del lavoro. Si fa presto, Beppe Sala, a giocare agli Obama da Instagram.
Elisa Ghidini