Elena Ferrante definisce la bellezza “cipria passata sull’orrore”.
Forse perché chi ha vissuto sulla propria pelle l’orrore della miseria, della fame, della morte dei propri cari, non può che concepire l’estetica come qualcosa di superfluo, il tentativo vano di mascherare la tragicità della vita.
E oggi più che mai la bellezza è questo.
Nell’era dei social (come viene descritto nel saggio “La società della performance”), la vita è un’eterna esibizione.
Ogni gesto, ogni evento deve essere fotografato, condiviso, immortalato per sempre. Si confonde ciò che è virtuale con la realtà.
Il problema, però, è che su Instagram ogni paesaggio è idilliaco, ogni momento è felice, ogni corpo è perfetto.
Tutto ciò che viene considerato “brutto” come il dolore, la sofferenza, la disperazione, ma anche l’invidia, la cattiveria, la rabbia viene automaticamente eliminato.
L’ algoritmo non lo concepisce.
E allora la verità è che, come ha scritto la Ferrante, questa bellezza a cui tanto ambiamo, è un inganno.
Inganno della natura prima, della tecnologia adesso.
Eppure c’è stato chi nella bellezza ci ha creduto veramente.
Poeti, scrittori, artisti come Oscar Wilde non hanno fatto che celebrarla per tutta la vita. Questo perché quello a cui facevano riferimento loro è tutt’altro.
E’ una bellezza che, come diceva Baudelaire, non può prescindere dal dolore. Non vola via con l’età, non aborre le fragilità, non mira ad uniformare le persone, ma le esalta per le loro peculiarità.
E’ la bellezza che non maschera, ma affronta la sofferenza e ne esce più forte di prima. Come una fenice che risorge dalle ceneri, come i bambini che giocano tra le macerie. Come un’opera d’arte, una melodia che tocca l’anima. Come l’amore che oltrepassa la morte.
E’ tutto ciò che vivo e che la società della performance tenta vanamente di cristallizzare in una forma sempre uguale.
Ma questa bellezza che ci offre non vale niente, perché manca l’essenza. D’altronde il problema del concentrarsi troppo sulla superficie è che, tolto il coperchio, resta solo il vuoto.