Michele Marsonet
Prorettore alle Relazioni Internazionali dell’Università di Genova, docente di Filosofia della scienza e Metodologia delle scienze umane
L’arresto di Suu Kyi nel 2021 continua a generare proteste e scioperi, mentre la Cina potrebbe trarre vantaggio dalla situazione. La giunta golpista sembra immune alle pressioni internazionali, mentre il futuro del Myanmar rimane incerto.
Dopo il trionfo elettorale conseguito da Aung San Suu Kyi in Myanmar, la ex Birmania (Burma in inglese), per gli occidentali la figura di colei che è stata insignita nel 1991 del premio Nobel per la pace diventa sempre più misteriosa. La sua “Lega Nazionale per la democrazia”, che ha ricevuto la maggioranza assoluta dei suffragi nelle ultime elezioni politiche birmane, non appare infatti un partito democratico se viene giudicato secondo i nostri standard.
Di qui la grande delusione di tutti coloro che in Occidente avevano esaltato Suu Kyi, adesso 78enne, come campionessa assoluta non solo della democrazia, ma anche dei “diritti umani”. Nozione, quest’ultima, che a europei ed americani sembra del tutto chiara e trasparente, mentre nel resto del mondo suscita dubbi e conflitti.
E’ noto che nell’ultimo decennio del secolo scorso Suu Kyi ottenne in Occidente un’enorme popolarità grazie alla sua opposizione senza tentennamenti alla dittatura militare che governava il Myanmar. I generali la tennero segregata per un periodo lunghissimo, e solo il coordinamento tra moti popolari locali e pressioni internazionali portarono infine alla sua liberazione.
Divenuta al contempo eroina e icona della democrazia e dei diritti umani, ricevette innumerevoli inviti da partiti politici, istituzioni accademiche e media occidentali. Nessuno, a quel tempo, comprese che Suu Kyi pensava a democrazia e diritti umani in termini diversi dai nostri.
Ci volle quindi del tempo per capire che la signora era una leader nazionalista, abile a sfruttare il fatto che la ex Birmania è una nazione a schiacciante maggioranza buddhista, dove predomina la dottrina theravada prevalente anche in tutto il Sud-Est asiatico.
Ha quindi impostato una linea fortemente identitaria che, in base alla storia passata, vede il buddhismo quale collante della nazione, in modo non molto dissimile da quanto avviene nella vicina Thailandia. In entrambi i Paesi le minoranze religiose, in particolare quelle islamiche che sono abbastanza numerose, continuano ad essere perseguitate.
Notissimo il caso dei Rohingya, popolazione musulmana che il governo di Myanmar intende privare della cittadinanza spingendola ad emigrare nel vicino Bangladesh. Il fatto è che, in questo ed altri casi, Aung San Suu Kyi non si differenzia poi molto dai generali che prima la tengono prigioniera.
Entrambi perseguono con forza la politica identitaria, fondata su basi religiose, dianzi menzionata. La discriminante è che i generali non intendevano concedere le elezioni temendo di perdere il potere assoluto, mentre Suu Kyi le ha volute essendo sicura che il suo partito avrebbe conseguito la maggioranza assoluta dei suffragi. E così è stato.
Giunge ora notizia continua che il calvario di Aung San Suu Kyi. Non è affatto finito. La premio Nobel, che ha stravinto le ultime elezioni libere tenutesi nel Paese, è stata arrestata per l’ennesima volta dall’esercito dopo il golpe del 2021, accusata di reati che tuttavia i militari hanno sempre rifiutato di discutere pubblicamente.
Ora si aggiunge una nuova beffa. La leader birmana ha ottenuto uno sconto di pena di 6 anni sui 33 cui è stata condannata. Il problema è che, avendo come si diceva dianzi 78 anni, le sarà impossibile ritornare sulla scena pubblica, pur essendo stata trasferita dal carcere ai domiciliari (come è già avvenuto molte volte in passato).
Nel frattempo il Myanmar è in piena rivolta. I militari golpisti si sentono coperti dall’appoggio russo e, soprattutto, cinese. Il Myanmar ha una posizione chiave nella “Via della Seta” così cara a Xi Jinping. Inoltre tanto Mosca che Pechino considerano strategica la posizione della ex Birmania ai fini della lotta contro i Paesi occidentali.
La popolazione, però, non sembra affatto rassegnata a dispetto del pugno di ferro adottato dal regime. Vi sono innanzitutto le minoranze etniche come Karen, Shan, Kachin e Chin – tutte dotate di un proprio esercito – che da molti anni reclamano l’autonomia (e in alcuni casi la piena indipendenza) dal governo centrale. In molte aree, pertanto, è in atto una sanguinosa guerra tra l’esercito della giunta golpista e queste forze a base etnica.
Il “Tamadaw”, l’esercito birmano, non esita a colpire i civili con lo scopo di intimidirli. Finora, però, non c’è riuscito, e scioperi e proteste diventano sempre più frequenti in ogni area del Paese. Gli osservatori internazionali parlano di undicimila morti, decine di migliaia di feriti e circa due milioni di sfollati interni.
Il tratto che caratterizza la giunta golpista è l’assoluta impermeabilità alle proteste internazionali. Ciò vale tanto per le infinite condanne di Aung San Suu Kyi, quanto per le brutali stragi di civili compiute mediante bombardamenti indiscriminati.
Alcune aree del Paese, soprattutto nella parte settentrionale, risultano liberate e non più sotto il controllo dell’esercito che, in alcuni casi, ha fraternizzato con i ribelli. Di qui la frustrazione dei golpisti che si sentono sempre meno certi della vittoria finale.
Il comandante della giunta, il generale Min Aung Hlaing, ha proclamato per l’ennesima volta lo stato di emergenza, ma tale misura in passato non ha mai funzionato. Tant’è vero che i problemi di sicurezza sono ormai comuni anche a Mandalay, la seconda città del Myanmar.
Ne trarrà vantaggio la Cina di Xi Jinping, che sta investendo nell’area somme enormi per realizzare il progetto della “Nuova via della seta”, e che è notoriamente refrattaria alla stessa nozione di “diritti umani”. Myanmar, Thailandia, Vietnam e altri Paesi dell’area si troveranno quindi in una posizione assai difficile, poiché ognuno di essi ha ricordi spiacevoli dell’imperialismo cinese nel periodo pre-comunista, e non è in grado di contrastare adeguatamente lo strapotere economico e commerciale dell’attuale Repubblica Popolare.