Abbattere i muri con una palla a spicchi, si può. È un progetto ambizioso quanto necessario quello partito circa tre anni fa all’interno del campo profughi di Shatila, a Beirut.
Un contesto difficile
Quando, tre anni or sono, coach Majdi ha deciso di dar vita alla sua idea e portare lo sport femminile all’interno del campo profughi di Shatila, era consapevole delle enormi difficoltà che avrebbe incontrato. Portare avanti un progetto sportivo al femminile , avrebbe senz’altro trovato resistenza all’interno del campo.
Per allenarsi le ragazze, di età compresa tra i sedici e vent’anni, avrebbero dovuto percorrere più di un chilometro a piedi . La cosa destava non poche perplessità soprattutto nei loro familiari, preoccupati da una diffusa ostilità degli abitanti di Beirut nei confronti dei profughi di Shatila.
Vivere a Shatila
Nel campo di Shatila, fondato nel 1949, trovano rifugio circa 3.000 persone (prevalentemente di nazionalità palestinese) in fuga dalla violenza delle forze armate sioniste.
La vita al suo interno non è propriamente agevole: cavi elettrici esposti alle intemperie (con conseguente rischio di incendi), nessuna fonte di acqua potabile e sovraffollamento costante.
Gli ospiti sono spesso costretti a vivere in soprannumero all’interno delle piccole unità abitative disseminate all’interno del recinto.
In un contesto in cui i servizi fondamentali sono carenti, o del tutto assenti, era impensabile svolgere in modo organizzato una qualsiasi forma di attività sportiva.
Abbattere i muri culturali
Autodeterminazione, anti-sessismo e voglia di ricominciare a vivere sono state la scintilla che ha dato il via al progetto Basket Beats Borders, finanziato nei primi anni di vita da un bando europeo.
Lo stesso coach Majdi è rimasto piacevolmente sorpreso dall’entusiasmo che l’idea ha suscitato fin da subito nelle ragazze, nasceva così il primo nucleo delle Shatila Basketball Girls.
Nel corso degli anni il numero delle partecipanti è andato via via crescendo.
Le ragazze capiscono da subito quanto lo sport possa aiutarle ad esprimersi in un contesto difficile come quello del campo.
Giocare a basket significava per loro affermarsi in quanto donne, rompendo gli schemi e i pregiudizi non solo della cultura islamica, ma (più in generale) legati allo sport femminile.
La possibilità di giocare a basket ha dato loro modo di percepirsi non solo come profughe, ma soprattutto come ragazze, con i loro sogni, la voglia di progettare un futuro e di ritrovare la spensieratezza che alla loro età dovrebbe essere un diritto.
Lo sport per favorire il dialogo
Fin dalla sua nascita, nel gennaio 2017, il progetto Basketball Beats Borders ha dato alle ragazze la possibilità di uscire dal campo ed interfacciarsi con il mondo al di là della recinzione.
Il basket ha infatti costruito un porte tra Beirut e Roma, coinvolgendo tre tra le realtà storiche dello sport popolare della Capitale: Atletico San Lorenzo, All Reds Basket e Les Bulles Fatales.
Da Beirut a Roma
I viaggi a Roma delle Shatila Basketball Girls, sono concepiti come spazi di confronto e come occasioni di raccolta fondi per far crescere il progetto.
E’ infatti in corso una campagna di fundraising per costruire un centro sportivo a Shatila.
Le trasferte delle ragazze sono inoltre un’occasione per ampliare i propri orizzonti, entrando in contatto con realtà sportive e culturali differenti.
Lo sport diventa quindi una sorta di esperanto, in grado di azzerare le diversità linguistiche e culturali, creando un “corridoio umanitario” tra le due città.
Realtà diverse a confronto
I viaggi a Roma hanno dato modo alle ragazze di allenarsi e giocare con atlete ed atleti provenienti da contesti completamente diversi dal loro. Il progetto ha offerto alle ragazze di Shatila la possibilità di entrare in contatto con lo sport praticato all’interno degli spazi liberati romani: luoghi nei quali fare sport significa soprattutto inclusione e condivisione senza alcun tipo di pregiudizio.
Entrare in contatto con queste realtà ha dato loro modo di parlare di femminismo e di uguaglianza di genere, visitare la casa delle Donne immergendosi in una realtà di forte autodeterminazione.
Una delle attiviste del progetto, MaVi, racconta di quanto i racconti delle ragazze siano stati importanti anche per loro:
“ Durante gli incontri avvenuti a Roma, le ragazze hanno portato la questione palestinese al centro di molti dibattiti, sensibilizzando molte e molti di noi sul tema”
Da Roma a Beirut
La prossima tappa del progetto farà il percorso inverso.
A fine agosto, una delegazione di atlete ed atleti provenienti dalle realtà sportive solidali, sarà infatti ospite delle ragazze.
Avranno così modo di toccare con mano la difficile realtà di un popolo in fuga da un’oppressione che dura da tanti, troppi anni.
Potranno allenarsi con loro, visitare i luoghi dove presto, grazie ai fondi raccolti, sorgerà la loro nuova palestra.
Allargare i propri orizzonti, prendere di coscienza di realtà distanti migliaia di chilometri, superare barriere linguistiche e culturali, è questo il regalo più grande che lo sport possa farci.
Luca Carnevale