Anche traumi lievi danneggiano la barriera ematoencefalica

barriera ematoencefalica

La notizia che arriva dall’Università Ben-Gurion del Negev desta preoccupazione per tutte le persone, sportivi soprattutto, che possono soffrire di ripetuti leggeri traumi cranici.
La ricerca pubblicata su Journal of Neurotrauma afferma che anche i traumi lievi danneggiano la barriera ematoencefalica.
La barriera ematoencefalica protegge il cervello dalle sostanza nocive per i neuroni che sono presenti nel sangue, infatti se è vero che il sangue porta al cervello l’ossigeno di cui ha essenziale bisogno e vari nutrienti è anche vero che nel sangue sono presenti sostanze che per i neuroni sono tossiche, dunque non deve esserci mai contatto diretto del fluido col tessuto cerebrale.
Fisicamente la barriera è costituita dalle cellule endoteliali che rivestono le pareti dei vasi sanguigni nel cervello unite tra loro da giunzioni cellulari occludenti. Anche le cellule endoteliali dei vasi sanguigni in altre parti del corpo svolgono azione di filtraggio ma molto meno selettiva.
Nel caso di traumi severi e moderati, quelli che di solito lasciano tracce ben visibili in una CT (tomografia computerizzata) o in una MRI  (imaging a risonanza magnetica), era ben noto ed anche abbastanza ovvio che la barriera ematoencefalica potesse essere compromessa, ma il team guidato dal Prof. Alon Friedman era interessato a investigare quei lievi traumi che oltre a non lasciare tracce negli esami di routine di solito non vengono nemmeno riportati da chi li subisce.



Lo studio è stato svolto mettendo sotto osservazione atleti professionisti di arti marziali e giovani rugbisti. Gli atleti di arti marziali sono stati esaminati prima di un incontro e 120 ore dopo. I rugbisti prima dell’inizio della stagione, alla fine e un sottogruppo di loro anche dopo certe partite.
Sì ma esaminati come? Tramite tecniche di MRI molto avanzate e più sensibili di quelle standard sviluppate presso la succitata università, tramite analisi del sangue per rilevare i biomarcatori della barriera ematoencefalica e tramite dei paradenti speciali sviluppati a  Stanford  che registravano velocità, accelerazione e forza al ritmo di quasi 10000 misurazioni al secondo.
I ricercatori sono stati in grado anche di porre in relazione gli indizi di danni alla barriera ematoencefalica con gli impatti registrati dai paradenti.
Un’altra conclusione di quanto osservato nello studio è che il modello attuale di trauma cranico è forse troppo semplicistico, il modello attuale vede il cervello come una massa gelatinosa che riporta danni agli strati superficiali quando viene sballottato un po’ troppo nella scatola cranica, ma sembrerebbe che in realtà i danni possano essere più profondi.
Ora i ricercatori israeliani hanno intenzione di approfondire se la barriera ematoncefalica guarisca da sola e con che tempistica.

Roberto Todini

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