Barış Pehlivan torna in carcere. Il giornalista turco inviso a Erdogan, il 15 agosto dovrà fare ritorno in prigione per aver tentato di far luce su una questione non gradita al governo in carica. Pehlivan è solo uno dei tanti giornalisti in Turchia vittima della deriva sempre più autoritaria nei confronti di chi cerca semplicemente di fare il suo mestiere.
Barış Pehlivan torna in carcere. Il giornalista turco di quarant’anni, il 15 agosto dovrà, infatti, fare ritorno in prigione per la quinta volta nella sua carriera giornalistica, rappresentando un esempio della deriva sempre più autoritaria della politica di Erdogan contro il giornalismo indipendente.
Barış Pehlivan è famoso per aver condotto inchieste su argomenti sensibili e controversi, spesso legati a questioni politiche, corruzione e violazione dei diritti umani nel suo paese, e per questo aver subito persecuzioni da parte del governo turco.
Vicende Giudiziarie
Nel marzo del 2020, le autorità turche arrestano Pehlivan, allora caporedattore del sito web di notizie indipendente OdaTv. L’accusa arriva nel settembre 2020: aver violato le leggi sull’intelligence nazionale e aver “rivelato segreti di stato”. A dar fastidio al governo, sarebbe stato l’aver reso pubblica la morte di un ufficiale dell’intelligence turca in Libia e di aver sollevato polemiche in merito al fatto che i media non ne fossero stati informati. Pehlivan è stato poi rilasciato sulla parola dopo aver scontato sei mesi di pena, sebbene la sua condanna ammontasse a quattro anni.
La scarcerazione è avvenuta nell’ambito di una manovra del governo turco molto criticata: la liberazione di oltre centomila detenuti per ragioni di sicurezza legate al Covid-19. Tra le persone scarcerate c’erano individui condannati per violenza sulle donne e per narcotraffico, molti dei quali, dopo il rilascio, hanno commesso nuovi reati o lasciato il paese.
Solo un numero esiguo di detenuti ha ottenuto la scarcerazione per crimini politici, tra questi Barış Pehlivan, il quale è subito tornato a alla sua attività di giornalista e, insieme al collega Barıs Terkoglu, pubblica “SS”, un libro dedicato a Süleyman Soylu, ex ministro degli Interni. Nel libro vengono esposti collegamenti dell’ex ministro – ora parlamentare, quindi coperto dall’immunità – con organizzazioni criminali e coinvolgimenti in finanziamenti illeciti.
Barış Pehlivan torna in carcere
Secondo Pehlivan e i suoi avvocati proprio quest’ultima pubblicazione avrebbe infastidito Soylu al punto di non consentire al giornalista di usufruire della clausola, introdotta il 15 luglio scorso, che permette lo sconto della pena in libertà condizionata anziché in carcere, clausola che ha consentito a centomila persone di non fare ritorno in carcere. Barış Pehlivan invece, torna in carcere, poiché ha ricevuto la notifica di presentarsi in prigione entro il 15 agosto.
Pehlivan ha dichiarato al Manifesto:
«Da quando sono stato scarcerato, ho continuato a lavorare, come faccio da venti anni. Insieme al collega Barıs Terkoglu ho pubblicato un nuovo libro intitolato SS, sull’ex ministro degli Interni, Süleyman Soylu. Ritengo che non poter beneficiare di questa “libertà condizionata”, sia il prezzo che devo pagare per questo libro».
Chi è Barış Pehlivan
Laureato in Comunicazione all’Università di Istanbul, inizia a lavorare per vari giornali locali fino al 2007, quando viene nominato caporedattore per il giornale online indipendente OdaTv, fondato dal giornalista investigativo Soner Yalçın. Sempre nel 2007 riceve la prima denuncia per aver “attentato all’ordine pubblico”. Il giornalista viene messo sotto processo, perché, nell’ambito di un documentario di oltre 200 puntate, una era stata dedicata ai fatti avvenuti il 12 settembre 1980 nella prigione di Diyarbakır. Nella città a sud-est della regione dell’Anatolia infatti, nel 1980, ha avuto luogo il terzo colpo di stato della Repubblica di Turchia, dove gruppi militanti di sinistra e destra si sono scontrati per il potere. L’ordine, tuttavia, era stato velocemente ripristinato. Le esecuzioni furono cinquanta e gli arresti più di cinquecentomila. Le Forze Armate Turche hanno governato il paese fino al 1983, anno in cui la democrazia fu ristabilita attraverso le elezioni.
Il 14 Febbraio 2011 ha però inizio il vero calvario di Pehlivan. Quel giorno la polizia turca perquisisce la sua casa e l’ufficio di OdaTv, e lui e altri giornalisti vengono arrestati con l’accusa di far parte di Ergenekon, un’organizzazione segreta ultra-laica e ultra-nazionalista. Viene incarcerato nella prigione di Silivri a Istanbul senza essere portato davanti a un giudice e viene formalmente accusato solo nove mesi dopo il suo arresto. Nel settembre 2012 viene rilasciato in attesa del processo a seguito di un rapporto giudiziario secondo cui le prove raccolte contro il giornalista erano state falsificate e introdotte nel suo computer attraverso un virus.
Il 12 aprile 2017, Pehlivan e altri 13 imputati del caso OdaTv vengono assolti. Il tribunale dispone inoltre la denuncia penale contro coloro che hanno organizzato il complotto dell’OdaTv.
Censura in Turchia
Negli anni le restrizioni alla libertà di stampa in Turchia sono diventate sempre più frequenti e l’arresto di giornalisti che non le rispettano è ormai una prassi comune. La base legale su cui si fonda la censura in Turchia deriva principalmente dalle leggi che limitano l’uso di espressioni considerate offensive per l’identità turca e quelle che si crede possano esaltare l’estremismo politico. Tuttavia, è evidente che tali leggi vengano spesso applicate in modo indiscriminato al fine di sopprimere le voci critiche nei confronti del governo e del presidente Erdogan.
Ogni anno il paese scende nella classifica sulla libertà di stampa stilata dall’ONG Reporter Senza Frontiere (RSF), che nel 2023 posiziona la Turchia al 165º posto su un totale di 180 paesi, scrivendo che nel paese “l’autoritarismo sta guadagnando terreno e mettendo a dura prova il pluralismo della stampa. Tutti i mezzi possibili sono utilizzati per indebolire le critiche”.
Le vie del governo per procedere a intimidire coloro che osano sfidare il potere sembrerebbero essere quattro.
Il primo sono le denunce, spesso depositate e sostenute da testimoni anonimi che possono terminare in detenzioni provvisorie o anche in arresti, con la produzione di prove finte, come nel caso di Pehlivan. In genere queste denunce sono di trasgressione di leggi sul terrorismo oppure di vilipendio del Presidente della Repubblica.
Un secondo metodo utilizzato sono le aggressioni: un esempio è quello di Ahmet Hakan, giornalista aggredito fuori dalla sua abitazione nel 2015; il giornalista e il giornale per cui scriveva, Hürriyet, erano accusati di simpatizzare per il PKK, il partito dei lavoratori curdo.
Un’altra strategia utilizzata è l’applicazione di pressioni economiche che costringono i giornalisti a perdere il lavoro o portano alla messa in atto di procedimenti per chiudere i mezzi d’informazione. Una volta che un procedimento giudiziario si conclude con la chiusura di un media, si dà inizio al processo di vendita all’asta; spesso il nuovo acquirente è un’azienda legata politicamente, ideologicamente o avente legami familiari con il partito al potere.
L’ultimo strumento frequentemente impiegato in Turchia per limitare la libertà di stampa è rappresentato dalla legislazione. Negli ultimi anni, il governo ha introdotto una serie di modifiche normative, ponendo a giustificazione la necessità di preservare la tranquillità del popolo. L’ultima, introdotta il 12 ottobre scorso, è la legge contro la disinformazione che rafforza il controllo sulle piattaforme social e sui portali d’informazione e criminalizza la condivisione di informazioni ritenute false.
La legge prevede che coloro che siano ritenuti colpevoli di aver pubblicato fake news che secondo le autorità diffondano il panico, mettano in pericolo le forze di sicurezza o la salute generale della società turca e potrebbero quindi essere condannati fino a tre anni di carcere. Il disegno di legge specifica, inoltre, che le pene possano essere aumentate fino alla metà se vengono utilizzati account anonimi per diffondere presunta disinformazione.
Il pluralismo nella stampa è di fondamentale importanza per una società democratica perché contribuisce a mantenere un governo responsabile, a prevenire la concentrazione di potere senza controllo e a contrastare la manipolazione dell’opinione pubblica. I giornalisti che negli anni hanno coraggiosamente continuato a svolgere il loro mestiere, denunciando i soprusi dei potenti anche a rischio della vita, incarnano i veri valori della professione a cui guardare con ammirazione come il più alto esempio di dedizione e amore del proprio lavoro.