L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani ha terminato sabato il suo viaggio in Cina, nella regione autonoma uigura dello Xinjiang, incontrando funzionari del governo, rappresentanti dell’imprenditoria ed esponenti della società civile
1 Giu. – Michelle Bachelet, ex presidente del Cile per due mandati non consecutivi (2006-2010 e 2014-2018) e dal 2018 in Carica come Alto Commissario dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), era arrivata in Cina lo scorso 23 maggio, per una serie di colloqui con le alte sfere della società cinese (dai membri del partito, passando per gli accademici fino agli imprenditori), ma anche per incontrare le comunità musulmane di etnia turcofona degli uiguri nella regione dello Xinjiang, al centro delle attenzioni per la recente fuga di notizie che ha posto sotto i riflettori la detenzione di oltre centinaia di migliaia di uiguri per motivi etnici e religiosi, nonché le violenze reiterate nei cosiddetti Centri di istruzione e formazione professionale (come definiti dallo stesso Governo di Xi Jinping a partire dal 2014, ma che in realtà sono campi di internamento).
Il contesto
Una tale visita è la prima del suo genere dopo quella intrapresa nel 2005 dall’allora Alto Commissario dell’organizzazione, il magistrato canadese Louise Arbour. A quel tempo, Hu Jintao (predecessore dell’attuale presidente), stava cercando di ammorbidire la sua immagine internazionale poco prima delle Olimpiadi di Pechino. Diciassette anni dopo, il Partito Comunista Cinese (PCC) ci riprova, annunciando tramite il portavoce del ministero degli Esteri Wang Wenbin, che Pechino avrebbe accolto “con favore l’arrivo dell’Alto Commissario Bachelet”. Il viaggio è durato sei giorni e tra le tappe ha visto la conferenza in un’università locale della città di Guangzhou e le visite alle città di Urumqi e Kashgar, durante le quali il commissario ha confermato di aver ricevuto appelli dagli uiguri del posto a proposito di familiari scomparsi e probabilmente detenuti.
Possibilità di un’apertura?
Durante la conferenza stampa online di chiusura della sua missione, la Bachelet ha parlato con entusiasmo della possibilità di impostare una discussione e un “gruppo di lavoro tra le Nazioni Unite e le autorità cinesi” sul tema dei diritti umani (sebbene non ne siano ancora noti i tempi, le modalità e gli obiettivi) oltre ad essersi mostrata felice per l’assenza di “supervisori” durante gli incontri nello Xinjiang. Ma nonostante le prospettive di dialogo, il genocidio della minoranza etnica uigura preoccupa le circa duecento Organizzazioni Non Governative (ONG – tra cui Amnesty International) che vi si sono interessate e che hanno documentato negli anni episodi di deportazione, detenzione violenta, stupri, sterilizzazione e aborto forzati, abiura della religione islamica e della propria lingua d’origine: tutti avvenuti dentro e fuori dai campi di “rieducazione” istituiti da Pechino nella regione.
Pratiche disumane
Nell’ottobre del 2020, il Presidente del Congresso Mondiale degli Uiguri (World Uyghur Congress), Dolkun Isa, in un’audizione in videoconferenza alla Commissione Esteri della Camera dei Deputati, illustrava il crollo del 60% dei tassi di natalità nelle regioni di Hotan e Kashgar, a causa di inumane misure di sterilizzazione e contraccezione forzata. Il governo di Pechino ha sottoposto circa otto milioni di persone, oltre che al contenimento delle nascite, a lavori forzati, all’assimilazione del popolo uiguro in una Cina han-centrica (l’etnia Han è quella dominante nella Repubblica Popolare Cinese), alla distruzione di simboli identitari (moschee, cimiteri e altri siti di importanza religiosa, culturale o storica per questo popolo) e al divieto di usare la propria lingua in scuole e luoghi pubblici.
La testimonianza
Altre persecuzioni vietano di avere la barba lunga, di indossare il velo, di possedere il Corano e di pregare, così come il digiuno durante il ramadan. Le forze di sicurezza separano i bambini dai genitori per deportarli all’interno dei campi ed indottrinarli alla fedeltà verso il Partito comunista, oltre a perpetrare molestie e ritorsioni nei confronti di chiunque voglia parlare apertamente della situazione.
“La maggior parte delle moschee resta vuota, circondata da filo spinato. Dal 2017 circa 8 mila sono state demolite… Il 50 % dei siti culturali danneggiato… le scritte in arabo cancellate e le croci rimosse dalle chiese. Allo stesso tempo il Partito incentiva milioni di coloni han a spostarsi nel Turkestan orientale – in cinese Xinjiang, il “Nuovo Territorio” – Solo negli ultimi tre anni sono giunti più di due milioni di nuovi coloni. Tutto ciò fa parte della strategia del PCC, che prevede il cambiamento della demografia nella regione…”.
Si al dialogo, ma servono inchieste indipendenti
Quest’anno, precisamente lo scorso 24 maggio, la pubblicazione del materiale all’interno degli Xinjiang Police Files (una fuga da fonte anonima di oltre dieci terabyte di immagini, video, registrazioni audio, resoconti e protocolli raccolta tra il 2000 e il 2018 proprio dagli archivi delle forze di sicurezza legate a due prefetture della regione dello Xinjiang) inviati all’antropologo tedesco Adrian Nikolaus Zenz e verificati da un consorzio internazionale di 14 media company e giornali (tra cui l’Espresso, in esclusiva per l’Italia), sembra confermare la veridicità dell’etnocidio e delle brutalità che da anni il World Uyghur Congress denuncia. Più di qualche ONG ha manifestato il dubbio che Pechino stia usando l’ignara Michelle nel duplice tentativo di propagandare falsi progressi nel campo dei diritti delle minoranze e di tagliare fuori eventuali inchieste indipendenti, insostituibili a fronte della poca trasparenza delle autorità cinesi.
Indagine o non indagine: questo è il dilemma
Lo scopo della visita (più volte posticipata) resta poco chiaro. l’Alto Commissario oscilla tra due posizioni, quella del poliziotto cattivo e del poliziotto buono: il 23 maggio ribadiva la richiesta di accesso senza restrizioni nello Xinjiang per avviare una valutazione indipendente, ma il 28, durante la videoconferenza di chiusura della missione, affermava che “Questa visita in Cina non è stata un’indagine, ma un modo per impostare una discussione con le autorità cinesi”. Nel frattempo la macchina di propaganda del partito unico non dorme mai e gli organi di stampa cinesi hanno riportato in questi giorni sue dichiarazioni circa “l’ammirazione per gli sforzi della Cina nel proteggere i diritti umani”. Dichiarazioni prontamente smentite dal suo ufficio, il quale ha successivamente diffuso una nota chiarendo che l’Alta commissaria non aveva fatto apprezzamenti sulla tutela di quegli stessi diritti nel territorio cinese.
Amnesty non ci sta
Non sembra convinta dell’efficacia della visita la Segretaria Generale di Amnesty International Agnès Callamard, che in un comunicato riportato dai canali telematici della ONG, ha commentato in modo scettico la visita.
“La visita dell’Alta commissaria è stata caratterizzata da foto con alti funzionari… e dalla manipolazione delle sue dichiarazioni da parte degli organi di stampa ufficiali. L’impressione che se ne ricava è che l’Alta commissaria sia finita dentro un esercizio ampiamente prevedibile di propaganda per il governo di Pechino”.
Riguardo alle azioni da intraprendere nell’immediato futuro, la Callamard ha le idee ben chiare: “Bachelet ha annunciato l’avvio di un gruppo di lavoro tra le Nazioni Unite e le autorità cinesi su imprese e diritti umani, terrorismo e diritti delle minoranze, ma non ne sono noti i tempi e gli obiettivi. Ciò non potrà in alcun modo sostituire l’urgente istituzione di un meccanismo internazionale indipendente per indagare sui crimini di diritto internazionale e su altre gravi violazioni di tali diritti nello Xinjiang. L’Alta commissaria deve chiedere al governo cinese l’immediata chiusura di tutti i campi, il rilascio delle persone che vi sono detenute e la fine dei sistematici attacchi contro gli uiguri, i kazachi e le altre minoranze musulmane dello Xinjiang”.
Roberto Abela